Milano, MTM – Teatro Litta, Stagione 2024/25
“CIRCE”
Drammaturgia di Corrado D’Elia e Chiara Salvucci
con Chiara Salvucci
Progetto, scene e regia Chiara Salvucci
Produzione Compagnia Corrado D’Elia
Milano, 10 dicembre 2024
Viviamo in tempi oggettivamente piuttosto complessi, fuori e dentro i teatri: uno degli elementi che ce lo riconferma con una certa costanza è che mai come prima in questi anni cerchiamo nel mito e nei classici una qualsivoglia forma di spiegazione, di giustificazione, di consolazione circa il nostro presente. Ecco allora che Corrado D’Elia e Chiara Salvucci decidono di trovare in Circe la giusta paladina dell’empowerment femminile e della femminilità consapevole e fluida che si vorrebbe contemporanea. Scrivono un monologo ad hoc, che non attinge praticamente a nessuna fonte classica o letteraria del mito, immaginano una figura femminile in tuta verde mimetica e una scena dominata da una sorta di isolotto selvaggio su cui pendono diversi vasi di piante; condiscono il tutto con una colonna sonora non particolarmente brillante e pezzi recitati a un microfono con tanto di asta (strizzando l’occhio al postdrammatico, naturalmente). A coronamento del progetto anche un grande telo plastico trasparente sul boccascena su cui si proiettano gli insulti che si rivolgono tipicamente alle donne, finché nel suo desiderio di liberazione Circe non lo strappa. Insomma: ci sono tutti gli elementi che piacciono agli addetti ai lavori del teatro meneghino degli ultimi anni, e per questo non ci stupiscono i riconoscimenti che questo monologo ha raccolto. Ma, a onor del vero, assistiamo a uno spettacolo piuttosto debole, che procede a passo di gambero (uno avanti e due indietro): bella l’idea di recuperare il mito, di discutibile valore letterario il testo prodotto (che si concede molte ingenuità sul tema dell’emancipazione 2.0, così come alcune incoerenze interne); apprezzabile l’idea di dar luce a un personaggio femminile del mito, ma sbagliata e inflazionata la scelta di Circe, già vittima negli ultimi anni di un mediocre quanto popolare romanzetto di Madeleine Miller e de facto lontana da una narrazione della “liberazione sessuale” – semmai, invece, prossima a un’idea di Grande Madre, di energia generatrice matriarcale; bella la messa in scena arborea e bello il disegno delle luci, ma opprimente la presenza di musica e microfoni, oltre che non del tutto piacevole la vocalità cacuminale della Salvucci, che sa molto di Accademia di Doppiaggio Anni Duemila. Ma la cosa più disturbante del progetto non è nemmeno il suo eccessivo peso sulle spalle di un’unica interprete, quanto la pretesa di raccontare la parabola umana di una donna (addirittura dalla sua fase fetale!), attraverso il rifiuto della famiglia, il ritorno alle origini ferine, la paideia autoimpartitasi ai ritmi della natura e l’affermazione contro l’invasione maschile dei suoi spazi, per poi farla finire nella maniera più stereotipata possibile: “ho visto le tue ferite senza mostrarti le mie” chiosa la nostra Circe, mettendosi al livello di una qualsiasi femmina innamorata che per tenersi un uomo nasconde i propri punti deboli, o, ancor peggio, non glieli mostra per non sconvolgerlo o fargli paura. Insomma, gratta gratta la Circe di D’Elia e Salvucci è una ragazza di periferia, semplice e un po’ fricchettona, che quando l’uomo della sua vita se ne va (preferendole sciagure e prove mortali) lei riesce solo a dirgli “Addio”, per il bene di chi, di lei o di lui? Probabilmente di entrambi, giacché lui riprende la sua via verso il successo e il pubblico riconoscimento, mentre lei, levatasi lo sfizio dell’amore, può riprendere a fare infusi, danzare nella pioggia e altre fricchettonate. Se questo è empowerment, qualcosa dev’esserci sfuggito.