Como, Teatro Sociale, Stagione d’Opera 2024/25
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Il duca di Mantova PARIDE CATALDO
Rigoletto GIUSEPPE ALTOMARE
Gilda BIANCA TOGNOCCHI
Sparafucile MATTIA DENTI
Maddalena VICTÓRIA PITTS
Giovanna/ La contessa di Ceprano LARA ROTILI
Il conte di Monterone BAOPENG WANG
Marullo LORENZO LIBERALI
Matteo Borsa RAFFAELE FEO
Il conte di Ceprano GRAZIANO DALLAVALLE
Un usciere MARCO TOMASONI
Un paggio FEDERICA CASSETTI
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro OperaLombardia
Direttore Alessandro D’Agostini
Maestro del Coro Diego Maccagnola
Regia, luci e coreografie Matteo Marziano Graziano
Scene Francesca Sgariboldi
Costumi Laurent Pellissier
Nuovo Allestimento in coproduzione dei teatri di OperaLombardia
Como, 28 novembre 2024
Ci sarebbero tanti modi per iniziare una recensione del “Rigoletto” di OperaLombardia: si potrebbe cominciare con una lunga digressione sulla differenza tra regia “all’italiana” e “alla tedesca” (dato che il regista è un connazionale trapiantato a Berlino); si potrebbe partire da un assunto canoro: “non tutti i baritoni sono Rigoletto”; oppure si potrebbe puntare il dito sulla produzione, che ha tanti di quei difetti, forse, da non starci nemmeno in queste mille parole. Preferiamo, tuttavia, iniziare con una citazione delle streghe di “Macbeth”: “Bello è brutto, brutto è bello”. È un paradosso che serve a indicare il carattere spiccatamente “alla rovescia” del mondo demoniaco, secondo una ben collaudata tradizione cristiana – e infatti a chiosarlo sono le sacerdotesse infernali, le streghe. Ed essendo il teatro senz’altro anche un luogo dello spirito, ci sembra, questa citazione, aderirvi perfettamente: a teatro, infatti, la regola è questa, non vale la formula matematica “meno per meno fa più” – a teatro se si imbrocca una certa via, non c’è modo di tornare indietro, l’intera produzione rischia di capitolare. E, detto proprio chiaramente, è quanto abbiamo visto nel “Rigoletto” comasco: si comincia con un muro che taglia inspiegabilmente orizzontalmente in due il palco, estromettendone metà dall’azione; a questa scena (curata da Francesca Sgariboldi) a ridosso del proscenio si aggiunge un numero esagerato di figuranti e artisti per quello spazio esiguo, ognuno con dei gesti molto precisi, per carità, ma d’intralcio al prossimo; a questi si aggiungano delle coreografie fra l’amatoriale e il delirante, un disegno luci arbitrario che sovente lascia i cantanti al buio (su “Ella mi fu rapita”, su “Tutte le feste al tempio”, persino su “Bella figlia dell’amore”) e, last but not least, il progetto costumistico di Laurent Pellissier che dovrebbe rivelare la natura postmoderna/distopica dell’intera regia, e invece la caratterizza pesantemente sulla via dell’arbitrarietà e del cattivo gusto – trasformando Rigoletto in una specie di Charlot pastore sardo e il Duca in un malavitoso pronto per lo Studio 54. Tutte le rimanenti trovate della regia di Matteo Marziano Graziano sono “orpelli” all’insegna del politicamente corretto: niente gobba a Rigoletto, ma Ceprano è su una sedia a rotelle e Giovanna ha un tutore a una gamba; poi abbiamo nell’ordine: una figurante trans mtf e uno ipostaturico, una ballerina sovrappeso e una calva, una Madonna in drag vestita di tricot bianco e una sfilata di corpi quasi nudi che celebri la diversità – in realtà, trattandosi di trovate estemporanee e senza una ragione forte per esserci, più che celebrazione diventa una citazione di “Freaks” di Todd Browning, ma forse era proprio questa l’intenzione del regista. Di certo possiamo constatare come questa assai discutibile messa in scena abbia posto in imbarazzo il cast, almeno nel primo atto, nel quale i protagonisti non hanno brillato – meglio, invece, Lorenzo Liberali (Marullo) e Baopeng Wang (Monterone), forse più disinvolti, e che hanno fatto sfoggio di vocalità sonore ed interessanti. Dal secondo atto in poi, vuoi per l’abitudine, vuoi per la voglia per lo meno di onorare Verdi, Paride Cataldo sfodera la sua bella vocalità, aderentissima alla linea di canto e dall’acuto d’acciaio, e Bianca Tognocchi aggiusta il tiro, rispetto a un “Caro nome” decisamente sottotono; la voce continua a presentare qualche limite sul piano della proiezione, ma duetto e stretta danno l’occasione al soprano autoctono di sfoderare una tecnica solida e un fraseggio certamente corretto. Permangono invece fino alla fine i dubbi su Giuseppe Altomare come Rigoletto: manca qualcosa alla sua interpretazione, che non è solamente corpo vocale o coinvolgimento scenico, ma si può semplicemente definire personalità. Non riesce ad essere persuasivo:non è tagliente con Ceprano e Monterone, non è rancoroso in “Cortigiani, vil razza dannata”, non è impetuoso nella stretta del secondo atto, né spezzato sul duetto finale. La linea vocale è corretta, ma senza un guizzo di fraseggio e con delle tensioni in zona acuta. È un Rigoletto riverso su stesso, che non si accende nemmeno di fronte alla figlia morente. Fra gli altri ruoli, a parte i già citati, senza dubbio Raffaele Feo ci regala un buon Borsa, grazie al colore piacevole della sua emissione naturalissima; tuttavia è lo Sparafucile di Mattia Denti che, sul piano musicale, si distingue: i facili gravi di Denti, il colore brunito al punto giusto, il fraseggio efficace, fanno del suo Sparafucile probabilmente la performance migliore della serata; peccato, invece, per la Maddalena di Victória Pitts: fascinosa e sicura, purtroppo annaspa per la scarsa proiezione nei centri nei momenti di insieme (nel quartetto del “Bella figlia dell’amor”, ad esempio). Il direttore Alessandro D’Agostini, dal canto suo, non ci ha regalato una concertazione particolarmente memorabile o personale, dirigendo con molta prudenza l’orchestra dei Pomeriggi Musicali, forse anch’egli influenzato dalle dinamiche sceniche spesso incomprensibili; il coro, invece, non si è fatto scoraggiare e il suo intervento non ha mancato di vis scaenica né di correttezza musicale – bravo il suo storico direttore, Diego Maccagnola. Insomma, se sul piano musicale la recita in fondo si è salvata, rimaniamo francamente perplessi dell’esito scenico, un po’ troppo “alla tedesca”, anche per un pubblico esperto e avvezzo a molte regie ardite, e decisamente poco rispettosa della bellissima partitura verdiana. Ma qui, è evidente, “Bello è brutto, brutto è bello”, proprio come in “Macbeth”.