Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
L’AVARO
di Molière
traduzione e adattamento Letizia Russo
con
Ugo Dighero, Mariangeles Torres, Fabio Barone, Stefano Dilauro, Cristian Giammarini, Paolo Li Volsi, Elisabetta Mazzullo, Rebecca Redaelli, Luigi Saravo
musiche Paolo Silvestri
costumi Lorenzo Russo Rainaldi
scene Luigi Saravo, Lorenzo Russo Rainaldi
movimenti coreografici Claudia Monti
luci Aldo Mantovani
regia Luigi Saravo
Roma, 17 Novembre 2024
Portare in scena L’Avaro di Molière significa immergersi in un’operazione culturale che trascende il semplice atto teatrale. Si tratta di un vero e proprio esercizio semiotico, un’analisi stratificata e complessa delle dinamiche simboliche e dei codici culturali che definiscono non solo il testo originale, ma anche il contesto in cui viene riproposto. Al Teatro Quirino Vittorio Gassman, Luigi Saravo non si limita a dirigere un’opera del grande maestro della commedia francese: egli la decostruisce, la ripensa e la ricodifica, immergendola in un linguaggio scenico che dialoga con il nostro tempo, pur mantenendo intatta l’architettura del capolavoro molieriano. La trama, nella sua struttura di superficie, appare lineare: Arpagone, paradigma universale dell’avarizia, si trova al centro di una rete di relazioni familiari e sociali compromesse dalla sua ossessione per il denaro. Eppure, questa linearità non è altro che un’illusione. Molière, come ogni grande narratore, costruisce una macchina narrativa il cui vero motore non è l’intreccio, bensì il significato. L’avarizia di Arpagone non è solo un difetto personale, ma una metafora sistemica, una lente attraverso cui osservare il rapporto dell’uomo con il possesso, il desiderio e il potere. Saravo coglie questo aspetto e lo amplifica attraverso una regia che spinge il testo verso un orizzonte interpretativo più ampio, dove il tempo storico diventa una dimensione flessibile e l’eterno ritorno del vizio umano si manifesta nella sua ciclicità. La scenografia, curata da Saravo e Lorenzo Russo Rainaldi, è un esempio di semiosi visiva che funziona non tanto per ciò che mostra, ma per ciò che suggerisce. Lo spazio scenico si configura come un luogo dell’assenza: pochi oggetti, ridotti all’essenziale, assumono una valenza simbolica densa di significati. La piccola cassetta argentata che custodisce il tesoro di Arpagone, fulcro dell’azione e metafora della sua ossessione, non è un semplice contenitore, ma un emblema che evoca una molteplicità di significati: il controllo, la paura, la morte stessa. La sobria essenzialità dell’arredo non rappresenta una mera scelta estetica, bensì un atto teorico, una dichiarazione di poetica che invita lo spettatore a colmare il vuoto con il proprio immaginario. Gli armadi trasparenti in plexiglass, al cui interno si intravedono oggetti di ogni genere, esprimono un paradosso: la loro chiusura nega l’uso, trasformandoli in simboli di inaccessibilità e privazione. Le luci di Aldo Mantovani, a loro volta, non si limitano a illuminare, ma costruiscono un linguaggio visivo che interagisce con la narrazione. Il chiaroscuro, utilizzato in modo sapiente, non è solo un omaggio al barocco, ma un dispositivo semiotico che sottolinea i contrasti morali e psicologici dei personaggi. Le ombre che avvolgono Arpagone nei momenti di solitudine non sono soltanto un effetto estetico: esse diventano parte integrante del racconto, un prolungamento visivo del conflitto interiore del protagonista. Anche i costumi di Lorenzo Russo Rainaldi giocano un ruolo fondamentale in questa architettura simbolica. Gli abiti, ispirati agli anni ’70 ma contaminati da elementi atemporali, trasformano i personaggi in figure archetipiche, riconoscibili ma non collocabili in un’epoca precisa. Questa scelta, apparentemente anacronistica, si rivela profondamente coerente con l’intento di Saravo di trascendere il tempo storico e rendere L’Avaro un’opera universale, capace di parlare direttamente al nostro presente. La colonna sonora di Paolo Silvestri, con la sua discrezione, si inserisce in questo quadro come un contrappunto necessario. Le musiche non sono mai invasive, ma costruiscono una dimensione sonora che amplifica le tensioni emotive e arricchisce la densità semiotica dello spettacolo. Silvestri compone temi che non accompagnano semplicemente l’azione, ma la interpretano, diventando un ulteriore livello di lettura per lo spettatore attento. E poi c’è Ugo Dighero, il cuore pulsante di questa macchina teatrale. Il suo Arpagone non è un semplice personaggio, ma un segno incarnato, un codice che il pubblico è chiamato a decifrare. Dighero evita con intelligenza ogni tentazione caricaturale, costruendo un protagonista che è al tempo stesso repellente e vulnerabile. La sua performance è un continuo gioco di rimandi e contraddizioni: la rigidità dei gesti nasconde una fragilità interiore, l’ironia tagliente lascia intravedere una malinconia profonda. Questo Arpagone è un essere umano prima ancora che un simbolo, ed è proprio questa umanità a renderlo così disturbante. Il resto del cast si muove con precisione attorno a questa figura centrale, creando un equilibrio corale che esalta le dinamiche relazionali del testo. Mariangeles Torres, nei panni di Freccia e della mezzana Frosina, offre una performance ricca di energia e versatilità, mentre Fabio Barone, Cristian Giammarini e gli altri membri del cast completano il quadro con interpretazioni solide e sfaccettate. Ogni personaggio diventa un tassello di un mosaico più grande, una voce in un coro che restituisce tutta la complessità e la profondità dell’opera di Molière. Luigi Saravo, con il suo approccio teorico e la sua sensibilità estetica, dimostra come il teatro possa essere non solo intrattenimento, ma anche e soprattutto un luogo di pensiero. In questa prospettiva, L’Avaro diventa qualcosa di più di una commedia: diventa un discorso, un atto di conoscenza, un’esplorazione dell’umano attraverso i suoi simboli e le sue rappresentazioni. Lo spettacolo al Teatro Quirino, dunque, è un’esperienza che supera i confini del palcoscenico. È un viaggio intellettuale e sensoriale che restituisce a Molière tutta la sua forza dirompente, proiettandola nel nostro presente con una lucidità e una profondità che raramente si incontrano nel panorama teatrale contemporaneo. È, in definitiva, un esempio di come il teatro, quando affrontato con intelligenza e rigore, possa rivelarsi uno strumento straordinario di conoscenza e di trasformazione. Photocredit@Federico Picco