Roma, Teatro Vascello
FAUST
tratto da Faust I e II di Johann Wolfgang von Goethe
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara,
Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti
regia Leonardo Manzan
scene Giuseppe Stellato
costumi Rossana Gea Cavallo
light design Marco D’Amelio
Music and Sound Franco Visioli
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione Teatro della Toscana Teatro Nazionale
Roma, 13 dicembre 2024
Sul palco del Teatro Vascello, Leonardo Manzan ha deciso di mettersi in gioco – e in pericolo – con uno spettacolo audace: Faust. Sì, avete capito bene, proprio quel Faust. Goethe. Mille pagine. Filosofia, magia, un po’ di streghe e persino un sabba. Un’opera irrappresentabile, dicono. Ma cosa importa? Manzan non si lascia intimidire, prende il toro per le corna, lo scuote e ci restituisce un Faust che è, al contempo, un atto d’amore e una sonora presa in giro al teatro stesso. La scena si apre in maniera apparentemente sobria. Sipario chiuso, luce calda, un personaggio al centro del palco. Solo un leggio e un tavolo per fargli compagnia. È come trovarsi di fronte a una lezione universitaria, ma senza la possibilità di dormire perché il protagonista, con tutta la sua autoconsapevolezza, ti tiene sveglio. Non con un’azione epica o con il tormento dell’anima. No, parla. Analizza. Spiega. Perché il Faust non si può rappresentare, perché il diavolo non esiste più, perché lui sa troppo di sé per crederci. E mentre lo dice, il pubblico inizia a chiedersi: “Ma allora cosa siamo venuti a vedere?” Ed è proprio in quel momento che arriva il colpo di scena: irrompe il diavolo. Non una presenza maestosa e terrificante, ma un essere che sembra uscito da un cabaret postmoderno. Si presenta con un cambio di luci brusco – il palco si tinge di rosso acceso, quasi a ricordarci che il diavolo ha ancora un po’ di stile – e con una musica elettronica pulsante, perfetta per un club berlinese. “Nessuno crede più nel diavolo,” dichiara, come se fosse un politico frustrato che non riesce più a convincere gli elettori. E qui sta il dramma: un diavolo che non è creduto non ha ragione di esistere. Ma non disperate, perché farà di tutto per dimostrarci il contrario. Quando il sipario si apre, il palco si trasforma in un mondo visivamente straordinario. Schermi bianchi fungono da tela per proiezioni che ricordano una graphic novel: disegni stilizzati, simboli evocativi, paesaggi che cambiano a ritmo con i dialoghi. È un teatro che gioca con la tecnologia, ma che non perde mai il tocco umano. E proprio qui comincia il viaggio dei due, un percorso che oscilla tra il ridicolo e il sublime, tra il filosofico e il grottesco. Il viaggio non sarebbe stato possibile senza un cast che ha saputo reggere il peso di un’opera tanto ambiziosa con energia e talento. Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, Paola Giannini, Jozef Gjura e Beatrice Verzotti portano in scena una freschezza e una potenza interpretativa straordinarie. Ognuno di loro dà vita a personaggi complessi, sfaccettati, capaci di muoversi tra il tragico e il comico, sostenendo una narrazione che richiede intensità emotiva e grande versatilità fisica. La loro energia è palpabile e si trasmette al pubblico in ogni scena, dal monologo più intimo alla danza più frenetica. In una scena memorabile, i protagonisti si ritrovano in un sabba contemporaneo. È una festa infernale, ma invece di streghe invecchiate e calderoni fumanti ci troviamo davanti a un rave degno dei migliori festival underground. I personaggi secondari si muovono come creature surreali, figure grottesche che incarnano i desideri più nascosti dell’animo umano. Il palco è invaso da una luce intermittente, un rosso pulsante che sembra uscito da una discoteca, mentre la musica elettronica si mescola a ritmi tribali. È caotico, è eccessivo, ed è impossibile staccare gli occhi dalla scena. Ma il vero cuore dello spettacolo è il rapporto tra il protagonista e il suo tormento. In un momento di grande pathos – o forse di grande autoironia – il protagonista si rivolge al pubblico con la celebre battuta: “All’attimo direi: sei così bello, fermati!” Le parole sono recitate con una voce tremante, quasi sofferta, ma il pubblico, abituato alla leggerezza precedente, non sa se commuoversi o sorridere. È questo il gioco di Manzan: oscillare continuamente tra serietà e sarcasmo, tra il coinvolgimento emotivo e il distacco critico. Le luci, curate con grande intelligenza, e la musica originale non sono semplici strumenti, ma veri e propri co-protagonisti dello spettacolo. In una scena, i due protagonisti si trovano in una città moderna deserta, evocata da proiezioni di grattacieli e strade vuote. La luce è fredda, azzurra, quasi alienante, mentre il silenzio è rotto solo da un canto corale che sembra arrivare da un altro mondo. È un momento di straniamento totale, che ti fa chiedere se stai assistendo a un dramma filosofico o a un esperimento audiovisivo. E poi c’è il finale, che non delude le aspettative. Il diavolo, dopo aver dominato la scena con la sua ironia e il suo carisma, inizia a dissolversi. La sua figura, un tempo imponente, si spegne lentamente, lasciando il protagonista solo al centro del palco. La luce bianca abbagliante lo illumina come una sorta di redenzione, ma anche qui Manzan non ci dà risposte chiare. Il pubblico resta sospeso, senza sapere chi abbia davvero vinto. Forse il diavolo, forse il protagonista, o forse nessuno. E questa ambiguità è il regalo più grande che lo spettacolo ci offre. Alla fine, un lungo applauso chiude la serata. Faust, al Teatro Vascello, è una dimostrazione che il teatro può essere tutto e il contrario di tutto: serio e irriverente, filosofico e grottesco, commovente e divertente. È un’esperienza che scuote, che provoca, e che ti lascia con una domanda: “E se il diavolo esistesse davvero?” Ma la vera domanda è un’altra: chi è il diavolo, oggi? Forse il protagonista, forse noi, forse il teatro stesso.