Roma, Teatro Vascello
BAHAMUTH
di Flavia Mastrella ed Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Manolo Muoio, Neilson Bispo Dos Santos
liberamente associato al “Manuale di zoologia fantastica” di J.L. Borges e M. Guerrero
Roma, 07 gennaio 2025
Bahamuth, il nuovo spettacolo firmato Antonio Rezza e Flavia Mastrella, è una di quelle esperienze teatrali che non ti lasciano scampo. Presentato al Teatro Vascello, questa produzione della Fabbrica dell’Attore ha la straordinaria capacità di farti sentire tanto intelligente quanto completamente perso, come se Borges e un giocattolo di legno avessero deciso di allearsi per confondere le tue certezze. La durata di un’ora e venti minuti senza intervallo potrebbe sembrare un regalo per chi ha fretta di andare a casa, ma in realtà è una trappola: il tempo si dilata, si contorce, ti intrappola in un universo frammentato fatto di corpi che sembrano alieni e oggetti che sembrano usciti da un laboratorio di scultura per folletti ribelli. Flavia Mastrella, con la sua scatola scenica, non ha costruito semplicemente un set, ma un habitat. Non aspettatevi piante o animali: qui si parla di stoffa, metallo e legno che respirano, vibrano e mettono in crisi ogni idea di staticità. È come se il teatro si fosse stancato di essere una stanza e avesse deciso di diventare un enigma. Lo spettacolo si apre con tre prologhi. Sì, tre. Perché uno solo sarebbe troppo facile. Un uomo steso diventa un tiranno, ma di quelli che ti fanno sorridere per nervosismo, seguito da un atleta di Dio che sembra scappato da un circo esistenzialista e da un nano ambizioso, più basso delle sue stesse aspettative. Qui niente è a misura d’uomo, e questo è il punto. Antonio Rezza si muove sul palco come se avesse litigato con la gravità: salta, corre, si accartoccia su se stesso, il tutto con una fisicità che fa sembrare il resto di noi una massa di molluschi poco motivati. E mentre lo guardi, ti chiedi se hai mai veramente capito cosa significhi essere un corpo. Il ritmo dello spettacolo è un mistero in sé. Non è solo una questione di movimenti o di battute, ma di come ogni elemento – parola, gesto, urlo – sembra arrivare da un universo parallelo dove il caos è la legge. La scatola scenica di Mastrella non è solo un contenitore: è un’idea che si muove, che respira, che sfida lo spazio e le tue percezioni. È aperta, instabile, un giocattolo per giganti o per bambini troppo cresciuti. I due assistenti in scena, Manolo Muoio e Neilson Bispo Dos Santos, non sono solo comparse, ma complici di un gioco che prende il concetto di serietà e lo lancia fuori dalla finestra. E poi c’è Bahamuth. No, non il Bahamuth dei videogiochi o delle leggende. Questo è un essere supremo che appare e scompare come un’idea geniale che ti sfugge proprio quando stai per afferrarla. È simbolo, è provocazione, è tutto quello che vuoi che sia, tranne semplice. E mentre cerchi di capirlo, Rezza porta il suo corpo all’estremo, trasformando ogni salto, ogni movimento verticale, in un grido contro la banalità. Se la mente si rifugia nella comodità del pensiero, il corpo qui è costretto a soffrire, a lottare, a esprimere tutto quello che le parole non possono dire. E poi ci sono le urla. Perché parlare è troppo mainstream. Le urla diventano musica, ritmo, una nuova grammatica che Rezza inventa davanti ai tuoi occhi. Non sono urla di dolore o di rabbia, ma urla che prendono le vocali, le allungano, le trasformano in un linguaggio che nessun dizionario potrà mai codificare. È un modo per ricordarti che il teatro non è fatto per essere comodo o compreso al primo colpo. È un’esperienza, e come tutte le esperienze, può essere meravigliosa e scomoda allo stesso tempo. E mentre il corpo urla e la mente lotta per tenere il passo, lo spazio scenico diventa il terzo protagonista di questa sfida esistenziale. La scatola di Flavia Mastrella, con il suo design intricato, crea un dialogo costante tra rigidità e flessibilità. Gli oggetti non sono semplici accessori, ma estensioni delle emozioni che si consumano sul palco. Le aste fluorescenti che delineano i confini del giocattolo sembrano esplodere in mille direzioni, suggerendo la possibilità di una fuga, ma allo stesso tempo intrappolano lo spettatore in un labirinto di significati che non hanno mai una sola risposta. La scatola, però, non è soltanto scenografia: è metafora e provocazione. Con la sua illusione di chiusura, mette in discussione la nostra percezione del confine tra realtà e rappresentazione. Non importa quanto siano grandi i suoi spazi o quanto siano vibranti i suoi colori: ciò che conta è come questa struttura riesca a contenere, e al contempo liberare, il caos emotivo e fisico che Antonio Rezza porta in scena. È un microcosmo che riflette la nostra società, un luogo in cui l’apparente ordine nasconde sempre un sottofondo di disordine. Lo spettacolo si conclude con un’immagine che ti lascia senza fiato. I personaggi, ridotti a strumenti dell’autore, rivelano la loro condizione di pedine in un gioco più grande di loro. La figura dell’autore diventa quasi il cattivo della storia, un gerarca che domina tutto con la sua lingua biforcuta. Ma è qui che risiede il genio di Rezza e Mastrella: non ti danno mai risposte preconfezionate. Ti lasciano con domande che continuano a risuonare molto tempo dopo che le luci si sono spente. Con Bahamuth, Antonio Rezza e Flavia Mastrella dimostrano ancora una volta che il teatro non è morto. È vivo, vibrante, strano, e soprattutto necessario. Questo spettacolo non ti dà risposte, ma ti riempie di domande, e in un mondo che sembra aver perso la voglia di interrogarsi, questo è già un atto rivoluzionario. Se esci dalla sala sentendoti un po’ confuso, un po’ frustrato, ma anche un po’ più vivo, allora forse hai capito il punto. E, se non l’hai capito, non preoccuparti: a volte il teatro serve proprio a ricordarti che non tutto deve essere chiaro per essere importante.