Gioachino Rossini (1792 – 1868): “Armida” (1817)

Dramma per musica in tre atti su libretto di Giovanni Schmidt. Moisés Marín (Goffredo), Michele Angelini (Rinaldo), Jusung Gabriel Park (Idraote), Ruth Iniesta (Armida), Patrick Kabongo (Gernando), Manuel Amati (Eustazio), César Arrieta (Ubaldo), Chuan Wang (Carlo), Shi Zong (Astarotte). Kraków Philharmonic Chorus, Marcin Wróbel (Maestro del Coro), Kraków Philharmonic OrchestraJosé Miguel Pérez-Sierra (direttore), Registrazione: Trinkhalle, Bad Wildbad, 15-20 luglio 2022. 2 Cd Naxos 8.660554-55
Il festival di Bad Wilbad è un’istituzione ammirevole per molti punti di vista che con possibilità economiche invero modeste riesce a presentare un buon cartellone e a volte a ottenere risultati apprezzabili. Il repertorio rossiniano – scelto come filo conduttore del festival fin dalla sua nascita – è particolarmente impegnativo e le incognite sono notevoli. A volte – come nel caso di “Ermione” – si riesce a ottenere un risultato complessivo migliore di quanto le singole parti possano far sperare ma in altri casi non si riesce ad ottenere la ciambella con il giusto buco.
E’ purtroppo il caso di “Armida” allestita per l’edizione 2022 del festival e risultante non pienamente soddisfacente nonostante l’innegabile impegno. “Armida” è uno dei titoli più complessi e sfuggenti dell’intero catalogo rossiniano tanto che è ancora difficile identificare un’edizione di assoluto riferimento e la “Maga” ha creato non pochi problemi anche a istituzioni più blasonate del festival tedesco.
A Bad Wilbad l’insieme mantiene una sua coerenza grazie all’attenta direzione di José Miguel Perez Sierra, direttore dai lunghi trascorsi rossiniani che riesce a dare della partitura una lettura solida e puntuale, riuscita sul piano delle dinamiche e del gioco dei contrasti con una prevalenza per timbri brillanti e colori sostenuti che si apprezzano nei lunghi balletti che rappresentano uno dei tratti più originali di quest’opera in cui Rossini anticipa – ancora nel pieno della stagione napoletana – moduli che saranno fatti propri dal grand’opéra parigino che si codificherà nei decenni seguenti. I complessi della Kraków Philharmonic si mostrano una formazione di solido professionismo ma che si scontra con l’originalità dello strumentale rossiniano. Cercheremmo qui invano quegli elementi esotici – dai sistri alla banda turchesca – usati da Rossini per dare alla sua musica un sapore medio-orientale e qui banalmente sostituiti da ordinari strumenti da orchestra.
Il mito di “Armida” è strettamente legato alla proliferazione delle parti tenorili, per altro in parte assommabili su un numero minore d’interpreti in quanto alcune parti non cantano mai in contemporanea ma è soprattutto la protagonista femminile a rappresentare un cimento da far tremare i polsi. Scritta per una Isabella Colbran al culmine delle proprie possibilità la parte si Armida si distende su una tessitura assai ampia e richiede un perfetto controllo vocale in ogni tipologia di passaggi d’agilità; inoltre il carattere del personaggio fatto di scarti espressivi estremi richiede che la “virtuosa” sia anche interprete di provata personalità. Qui abbiamo Ruth Iniesta soprano lirico-leggero avvezzo ai lirismi di Amina e Gilda  che si trova catapultata in una parte che spesso batte su una tessiture per lei disagevole  e che la costringono a giocare sempre in difesa. Persino nei momenti più lirici e potrebbero essere più nelle sue corde, come la celebre “D’amor al dolce impero” si percepisce una prudenza che sfiora il timore e annacqua le polveri dei fuochi d’artificio vocali. Lo stesso accade, quasi ovvio,  nei “furori” della scena finale nonostante l’attenzione e l’impegno che la Iniesta mette per domare la parte. Ne apprezziamo la piacevolezza del Il timbro e il solido registro acuto, ma per Armida questo non basta.
I tenori nel complesso non cantano male ma purtroppo si ascolta uno scarso contrasto timbrico, così che il gioco di differenze di personalità drammatico-vocali  così attentamente ricercato da Rossini viene in gran parte a perdersi.
Michele Angelini che non ci era parso esaltante nel “Marin Faliero” bergamasco al Donizetti Festvial 2020, qui appare più centrato. Di Rinaldo coglie prevalentemente i tratti più lirici dove può far valere una voce piacevole, acuti facili e buon gusto nelle colorature. I duetti con Armida sono ben cesellati ma quando il canto si fa più drammatico e si vorrebbe maggior corpo vocale emergono i limiti interpretativi. Discorso per molti versi simili per Patrick Kabongo (Gernando). Voce piccola ma ottimo senso stilistico e canto pulito ed elegante convince appare convincente finché la tensione non sale ma purtroppo il duetto con Rinaldo così simile a quello dell’”Otello” appare alquanto sbiadito con due voci troppo simili fra loro e nessuna delle due in grado di dare al brano la giusta smaltatura.
Moisés Marín ci aveva sorpreso come Pirro, qui come Goffredo non canta male ma appare più generico e fin troppo calato nell’uniformità generale da cui per nulla si elevano – nonostante la correttezza di fondo – Manuel Amati (Eustazio), César Arrieta (Ubaldo) e Chuan Wang (Carlo). Discorso non dissimile per i due bassi Jusung Gabriel Park (Idraote) e Shi Zong (Astarotte) funzionali alla resa complessiva ma incapaci di imporre un sigillo più personale in due ruoli – bisogna riconoscerlo – abbastanza anonimi già di loro.