Disegno luci Marcello Falco
Il secondo Cechov cui abbiamo assistito la settimana passata è per alcuni versi molto simile e per altri diametralmente opposto al primo. “Vania“ è una drammaturgia collettiva, ossia gli attori hanno scritto le loro stesse parti ispirandosi all’opera del drammaturgo russo; il pericolo, in casi come questo, è che l’attore, vuoi per ignoranza, vuoi per protagonismo, attinga sempre più al proprio vissuto e alla propria personalità, tenendosi lontano dal modello proposto, ma questo non è il caso dei quattro della Compagnia Oyes: ci troviamo di fronte, infatti, a un testo di rara corrispondenza drammaturgica e, allo stesso tempo, di notevole originalità. I cinque ruoli aderiscono perfettamente alle fisicità, alle vocalità, alle prossemiche dei loro interpreti, e non è superfluo specificarlo, giacché la scrittura è un formidabile mezzo di mistificazione del sé; Zulli, Gemma, Korn e Terruso, invece, sanno tenere bene le redini del difficile mezzo espressivo scelto, mantenendo una via di onestà a se stessi e al personaggio degna di lavori drammaturgici ben più illustri. Fabio Zulli è un Ivan come tutti, nella vita, ne abbiamo conosciuti: un uomo piccolo, insignificante, ma comunque a contatto con i propri sentimenti, il proprio lato oscuro, che si esprimono a prescindere da quello che accade – e nelle movenze, nella falsificazione della voce, ricorda davvero il lešij di Cechov, ossia lo spirito briccone e smargiasso che l’antica mitologia russa ricollegava, però, a una vita originaria boschereccia.
Francesca Gemma della Sonia originale ci ripropone, in primis, la complessità di una ragazza allo stesso tempo felice e non felice, in difficile equilibrio tra ciò che le è stato dato e ciò che vorrebbe prendersi; l’interpretazione è naturalmente ben caratterizzata, anche nei momenti più bruschi o sofferti, senza dubbio aiutata da una cosciente gestione di un’estesa vocalità, che ci mostra nei momenti in cui canta “Mad World“. Vanessa Korn è, considerato il personaggio di Elena, quella su cui è più difficile esprimere un giudizio, giacché l’enigmaticità e l’introiezione dell’emotività sono i caratteri principali del personaggio; la fisicità con cui Korn decide di contraddistinguere il suo ruolo ne tradisce l’algore, poiché è severa e torreggiante nel suo abitino azzurro, spesso mossa da fremiti ed istinti selvaggi.
Umberto Terruso, infine, è un dottore che si esprime senza dubbio più in profondità che in esteriorità: i suoi monologhi sono taglienti, il suo carattere conosce sia la complessità di Sonia sia l’incomunicabilità di Elena, ma anche il desiderio di leggerezza di Ivan, diventando l’oggetto del desiderio di tutta la famiglia, ma non sapendosi concedere davvero a nessuno dei tre come questi desiderano. Di fronte a ruoli così accuratamente viscerali, la regia di Stefano Cordella sa comunque trovare una cifra stilistica, un gesto unificante, ed è proprio il costringere gli interpreti ad entrare e uscire dal personaggio a scena aperta, per far sì che le luci (efficacemente disegnate da Marcello Falco) e le musiche dello spettacolo siano direttamente gestite da loro, ma anche il ridurre ai minimi termini le uscite vere e proprie dal palco, tenendo sempre a vista sia chi parla sia di chi si parla, in un gioco efficace di rispecchiamenti. Lo spettacolo si risolve così in un esito affascinante e strettamente coeso, perfettamente in equilibrio tra teatro di parola, drammaturgia di scena e postdrammatico: una piccola gemma che merita di continuare a riscuotere successi. Foto Matteo Gilli