Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2024/25
“FANTOZZI. UNA TRAGEDIA”
Da Paolo Villaggio
Drammaturgia Gianni Fantoni, Davide Livermore, Andrea Porcheddu, Carlo Sciaccaluga
Con: GIANNI FANTONI, PAOLO CRESTA, CRISTIANO DESSÌ, LORENZO FONTANA, ROSSANA GAY, MARCELLO GRAVINA, SIMONETTA GUARINO, LUDOVICA IANNETTI, VALENTINA VIRANDO
Regia Davide Livermore
Scene Lorenzo Russo Rainaldi
Costumi Anna Verde
Supervisione Musicale Fabio Frizzi
Luci Aldo Mantovani
Produzione Teatro Nazionale di Genova, Enfi Teatro, Nuovo Teatro Parioli, Geco Animation
Napoli, 8 gennaio 2025
Fantozzi è il ritratto perfetto dell’uomo «medio» costretto, da se stesso e dagli altri, a essere tale. «Essere Fantozzi» non può, e non deve, essere una «colpa» e nemmeno fonte d’estrema e amara vergogna. Esserlo non significa essere dei perdenti, dei servi, insomma delle «merdacce»: uno dei tanti termini che determinano in modo drammaticamente «grottesco» non tanto il gergo propriamente «fantozziano», ma quello appartenente ai padroni, ai ricchi, ai mega-direttori, ai direttori «naturali» ed «ereditieri» e, soprattutto, al direttore dei direttori, al «direttore galattico»; un gergo che il «sottoposto», il ragioniere, il Fantozzi è costretto a fare proprio, perché costretto a osservare se stesso attraverso gli occhi dei padroni. Il gergo «fantozziano» è un sistema linguistico, entro cui il ragioniere appare come irrimediabilmente incastrato; un gergo potentemente espressivo e alienante, che determina i rapporti «sadomasochistici» che Fantozzi intrattiene col padrone di turno, col professor Riccardelli, con la contessa Serbelloni o col conte Catellani. Quando Fantozzi accetta di essere «martirizzato», di essere crocifisso in sala mensa o quando accetta di essere adoperato come parafulmine, sta incastrandosi in momenti punitivi e autopunitivi, paradigmatici dell’arbitrarietà del Potere, parafrasando Pasolini; arbitrarietà che emerge, sia pure in chiave «farsesca», nelle scene dei film Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976). Ecco che, però, al trentottesimo «coglionazzo», ricevuto dal conte Catellani, Fantozzi ha un raro moto d’orgoglio.
Quel moto d’orgoglio che ha caratterizzato quest’adattamento teatrale dei film sopracitati, in cui Paolo Villaggio dava voce e corpo al ragioniere; una riduzione drammaturgica (scritta da Gianni Fantoni, Davide Livermore, Andrea Porcheddu, Carlo Sciaccaluga) dal carattere anche potentemente narrativo e romanzesco – proprio perché, facendo eco alla struttura «frammentaria» dei romanzi di Villaggio, appare organizzata strutturalmente in macro-momenti, in vari episodi, quelli più celebri dei film: dalla «pazzesca» Corazzata Potëmkin alla scena della partita a biliardo in casa Catellani; dalla partita a tennis alla cena in villa Serbelloni. Macro-momenti brillanti, poeticamente «evocati» – e non meramente «riprodotti» – attraverso gesti e movimenti stilizzati. Come risultano estremamente sintetizzate anche le scene, ideate da Lorenzo Russo Rainaldi, costituite da pannelli e da tende; ambienti nitidamente illuminati da Aldo Mantovani.
Nel disegno registico di Davide Livermore, la rappresentazione assume la forma d’un collage, determinato dalle celebri musiche dei film, supervisionate dal compositore Fabio Frizzi; un tragicomico pastiche teatrale, il cui carattere frammentario consiste anche nell’escamotage dell’innesto, nella sequenza episodica, di momenti narrativi (attraverso cui i vari attori, assumendo a turno la funzione di «voce narrante», introducono lo spettatore ai fatti e alle scene) e di momenti altamente poetici e astratti: pose plastiche dalla tragica e irrimediabile sospensione; momenti di irrealtà giustapposte a scene concretamente e irresistibilmente comiche: il ragioniere, lì, in poltrona, incastrato in una degradante e faticosa pratica d’autoerotismo, consumata guardando un «tragico» strip-tease su TeleMerda: una perfetta, definitiva critica allo strapotere che i vari mezzi di comunicazione esercitano sui corpi dell’informe massa; per dirla ancora con Pasolini (intervistato, nel 1975, da Gideon Bachmann), il Potere non fa altro che mercificare i corpi.
E lì, seduto in poltrona, Fantozzi con le sue «tragiche mutande ascellari» e con l’inseparabile berretto francese: una maschera teatrale, la cui cristallizzazione appare irrisolvibile: Ugo Fantozzi come Felice Sciosciammocca di Eduardo Scarpetta, una «maschera che non porta maschera», per citare Eduardo De Filippo. E maschera senza maschera è stato questo Fantozzi interpretato, al Bellini, da Gianni Fantoni. Attore perfetto, nella realistica costruzione del personaggio del ragioniere, avvenuta attraverso una poetica e brillante rievocazione delle sue incertezze linguistiche, dei suoi improvvisi e brevissimi momenti d’ira o di libido, dei suoi attimi d’estremo e umanissimo sconforto. L’attore affronta il ruolo con un’esattezza che potremmo definire «filologica»: il personaggio diventa un’opera letteraria «vivente». Non si tratta, però, d’un Fantozzi imitato o «parodiato», ma d’un Fantozzi «ricostruito» e affrancato dalle degradanti mortificazioni eternamente operate dai suoi padroni. Ed ecco perché Fantoni, alla fine, ci esorta a nutrire nei confronti del ragioniere un sentimento d’amore fraterno.
Ma l’altro sentimento che attraversa e determina questo pastiche teatrale è quello d’una amara e inevitabile «assenza di umanità»: tutti gli altri personaggi (Pina Fantozzi, la figlia Mariangela, Calboni, il ragionier Filini, la signorina Silvani…) restano costretti in volontari cliché di loro stessi: i loro eterni costumi, curati da Anna Verde (dal vestito rosso della Silvani al doppiopetto gessato di Filini), rappresentano il vivido esempio di questa irrisolvibile cristallizzazione. Risultano coralmente obbligati, cioè, in un’infinita citazione, dal carattere volutamente «parodistico», di espressioni o di comportamenti scenici; una reiterazione di celebri elementi (provenienti anche dai film) non soltanto linguistici, ma anche, e soprattutto, gestuali. Ottimi, dunque, tutti gli altri attori: Paolo Cresta, Cristiano Dessì, Lorenzo Fontana, Rossana Gay, Marcello Gravina, Simonetta Guarino, Ludovica Iannetti, Valentina Virando. In definitiva, una gemma teatrale accolta entusiasticamente dal pubblico napoletano. Foto Nicolò Rocco Creazzo
Napoli, Teatro Bellini: “Fantozzi. Una tragedia”
