Roma, Teatro Vascello
IL GRANDE VUOTO
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli
regia Fabiana Iacozzilli
drammaturgia Linda Dalisi, Fabiana Iacozzilli
dramaturg Linda Dalisi
con Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Giusi Merli e con Mona Abokhatwa per la prima volta in scena
progettazione scene Paola Villani
luci Raffaella Vitiello
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
costumi Anna Coluccia
video Lorenzo Letizia
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, La Corte Ospitale, Romaeuropa Festival
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna
con il sostegno di Accademia Perduta / Romagna Teatri, Carrozzerie n.o.t, Fivizzano 27, Residenza della Bassa Sabina, Teatro Biblioteca Quarticciolo
Roma, 29 gennaio 2025
La scena teatrale contemporanea è attraversata da un’esigenza sempre più pressante di interrogarsi sulla memoria, sulla perdita e sulla percezione del tempo. “Il Grande Vuoto”, ultimo capitolo della Trilogia del Vento di Fabiana Iacozzilli, in scena al Teatro Vascello, si pone con forza in questo solco di ricerca, costruendo un dispositivo scenico in cui il teatro diventa non solo rappresentazione, ma esperienza immersiva e sensoriale. La regia di Iacozzilli si conferma come una delle più incisive e rigorose della scena italiana attuale, capace di fondere una precisione compositiva assoluta con una tensione emotiva che si trasmette al pubblico senza mai scadere nel patetismo. Al centro della scena, una piccola automobile rossa introduce immediatamente una dimensione domestica, evocando uno spazio della quotidianità familiare che diventa, nel corso dello spettacolo, terreno di esplorazione delle dinamiche della memoria e della sua erosione. La messa in scena si sviluppa attraverso un raffinato equilibrio tra realismo e astrazione: gli oggetti di uso comune – occhiali, arance, buste della spesa – sono disposti e manipolati con estrema cura, trasformandosi gradualmente in elementi perturbanti che scandiscono il progressivo sfaldarsi del tempo e dell’identità.La drammaturgia, firmata da Linda Dalisi, si nutre di un profondo lavoro di ricerca su testimonianze raccolte in RSA, dando vita a una polifonia di voci che restituisce con autenticità il processo di smarrimento cognitivo e affettivo.
L’andamento testuale non segue una linearità narrativa, ma procede per frammenti, costruendo un dialogo disarticolato tra passato e presente, tra consapevolezza e oblio. Ne emerge una scrittura scenica in cui la parola si alterna a lunghi momenti di silenzio, utilizzati come autentiche cesure drammaturgiche che accentuano il senso di vuoto evocato dal titolo dello spettacolo. Gli attori offrono interpretazioni di straordinaria intensità. Giusi Merli incarna con profondità e rigore una madre intrappolata nelle pieghe della propria mente, in un continuo slittamento tra lucidità e disorientamento. La sua performance si distingue per una delicatezza struggente, in cui ogni gesto, ogni espressione del volto diventa un segnale di resistenza alla dissoluzione. Accanto a lei, Francesca Farcomeni e Piero Lanzellotti interpretano i figli con una recitazione che alterna stati di tensione, disperazione e rassegnazione, restituendo con rara autenticità il carico emotivo e psicologico che accompagna chi assiste impotente all’inevitabile deterioramento di una persona cara.
Mona Abokhatwa, nel ruolo della badante, è una presenza silenziosa e misurata, il cui distacco apparente si rivela invece una forma di accoglienza e comprensione profonda della fragilità umana. Ermanno de Biagi, nel ruolo del padre, offre un cammeo breve ma essenziale: poche battute, cariche di significato, che definiscono il grande vuoto attorno a cui ruota la narrazione. Con naturalezza e incisività fisica, la sua presenza lascia un’ impronta profonda nello spettacolo. La regia di Iacozzilli costruisce un impianto visivo che rifugge ogni didascalismo, privilegiando un dialogo serrato tra luci, suoni e proiezioni video. La scenografia curata da Paola Villani compone uno spazio essenziale, ma altamente evocativo, in cui ogni oggetto sembra appartenere a un fragile equilibrio tra presenza e assenza. Il lavoro sulle luci, affidato a Raffaella Vitiello, modula chiaroscuri e bagliori improvvisi per scandire il flusso temporale ed emotivo della pièce. Le proiezioni video di Lorenzo Letizia amplificano il senso di scissione tra presente e ricordo, tra realtà e percezione interiore. Anche il paesaggio sonoro, con il suono curato da Hubert Westkemper e le musiche originali di Tommy Grieco, contribuisce in modo decisivo alla costruzione dell’atmosfera dello spettacolo: il ticchettio di un orologio, il fruscio delle buste, il rumore lontano di un motore non sono semplici elementi accessori, ma veri e propri strumenti di evocazione del vissuto e della sua progressiva dissolvenza.
I costumi di Anna Coluccia, con la loro sobrietà e leggerezza, sottolineano la vulnerabilità dei personaggi, imprimendo un ulteriore strato di delicatezza alla messinscena. La scena finale rappresenta il culmine di questa indagine teatrale sulla memoria e sullo scorrere del tempo. Giusi Merli, avvolta in una tovaglia che si trasforma in un mantello, recita frammenti del Re Lear, in una commistione tra parola shakespeariana e sussurri frammentari, mentre una pioggia dorata cade su di lei. Il teatro si fa qui metafora dell’estrema resistenza dell’individuo di fronte al nulla, un ultimo baluardo contro l’oblio. “Il Grande Vuoto” non è solo uno spettacolo, ma un’esperienza di rara potenza emotiva e intellettuale. La scrittura scenica di Iacozzilli riesce a rendere tangibile ciò che per definizione sfugge: la natura impalpabile della memoria, la fatica del ricordo, il senso di spaesamento che accompagna la perdita. Il pubblico, travolto dalla potenza della messinscena, ha risposto con una standing ovation, in un silenzio carico di commozione che si è rotto solo nel fragore degli applausi finali.
C’è qualcosa di universale in questo spettacolo, un dolore che tutti riconosciamo, una malinconia che ci attraversa e ci accomuna. Uscendo dal teatro, ci si porta dentro un nodo alla gola e una domanda aperta: quanto di ciò che amiamo può resistere al tempo? Forse, come suggerisce Il Grande Vuoto, non è solo l’arte a darci un barlume di eternità, ma anche l’amore. L’amore per chi abbiamo perso fisicamente o per chi, pur essendo ancora in questa vita, abbiamo perso nel contatto. Ed è proprio in questo spazio sospeso tra presenza e assenza che l’eco dei sentimenti continua a risuonare, offrendoci un fragile, ma inestimabile, senso di continuità.