Roma, Teatro Vascello: “Il rito”

Roma, Teatro Vascello
IL RITO
l’arte è vita, è purificazione
di Ingmar Bergman
traduzione di Gianluca Iumiento
con
Alice Arcuri (Thea Winkelmann)
Giampiero Judica (Sebastian Fischer)
Alfonso Postiglione (Giudice Ernst Abrahmsson)
Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann)
adattamento e regia Alfonso Postiglione
scene Roberto Crea
costumi Giuseppe Avallone
musiche Paolo Coletta
disegno luci Luigi Della Monica
partitura fisica Sara Lupoli
aiuto regia Serena Marziale
Roma, 23 gennaio 2025
Alfonso Postiglione ce lo dice chiaramente: “L’unica sacralità possibile è contenuta, prima ancora che nell’atto, nello sforzo artistico.” Ed è proprio questo il cuore pulsante dello spettacolo ”Il Rito”, tratto dall’omonimo film di Ingmar Bergman.  Qui, l’arte è il centro del conflitto, la scintilla che accende tensioni, mette a nudo fragilità e, soprattutto, destabilizza.  Tre artisti, Hans, Thea e Sebastian, interpretati magistralmente da Antonio Zavatteri, Alice Arcuri e Giampiero Judica, che si trovano a difendere il loro controverso spettacolo davanti al giudice Ernst Abrahmsson, portato in scena dallo stesso Alfonso Postiglione, che cerca di discernere tra oscenità e arte.  Ma, come ben presto ci accorgiamo, il vero scandalo non è lo spettacolo: è la vita stessa, con le sue relazioni ambigue, le sue pulsioni sfacciate e i suoi desideri irrisolti. Qui sta il ribaltamento: non sono gli artisti sotto processo, ma il giudice, la morale e, forse, anche il pubblico. La scena è un colpo d’occhio: uno spazio bianco, quasi ipnotico, avvolge tutto come una tela non ancora dipinta. Ma al centro, ecco il giudice: innalzato su una piattaforma cubica, quasi fosse un piccolo Olimpo burocratico. “Rintanato lassù, rifugiato dal mondo,” dice Postiglione, e in effetti questa scelta visiva suggerisce un personaggio che si crede al di sopra delle bassezze umane, ma che presto viene contaminato dai “germi della libertà artistica”. Il contrasto tra il bianco immacolato e il nero è potente, simbolico: da una parte, il caos emotivo degli artisti, un bianco che si riempie di significati; dall’altra, l’ordine preteso dal giudice, che cerca di delimitare, contenere. Gli interpreti sono eccellenti. Ma ciò che colpisce di più non sono le parole, bensì i loro corpi. Ogni movimento sembra un atto comunicativo, quasi a voler dire che l’arte vera non si può spiegare, solo vivere. Thea è bellissima e nevrotica, fragile e seducente. “Il loro è un assedio volontario, un contagio artaudiano,” ci suggerisce Postiglione. E ha ragione: gli artisti invadono lo spazio con la loro fisicità, portando sulla scena relazioni tanto malate quanto irresistibili.  Anche i costumi parlano, con toni di bianco e nero, a tratti quasi nudi, avvolti da lenzuola che sembrano partecipare alla danza del vedo e non vedo; in sintonia con il loro linguaggio corporeo, curato da Sara Lupoli.  All’inizio, il giudice appare come un cerimoniere imparziale, una figura istituzionale che osserva e giudica dall’alto. Ma lentamente, scena dopo scena, si rivela per quello che è: un uomo fragile, tormentato dalla solitudine e, infine, preda dei tre artisti. Il climax arriva con la performance finale, il rito; il cui simbolismo si fa totale, il no-sense esplode e tutto si rivela: L’arte scardina le certezze morali e sociali,” scrive Postiglione, e non potremmo essere più d’accordo.  Il tema della censura emerge come un moloch che ingoia tutto, ma lo spettacolo ci suggerisce che censurare l’arte significa censurare la vita stessa. Il Rito ci ricorda che l’arte non può essere contenuta: è un atto sacro, necessario, e il tentativo di “normalizzare” è destinato al fallimento. Alla fine l’applauso è un atto catartico, un piccolo rito collettivo, quasi a liberarci del peso di ciò che abbiamo visto. Perché si va incontro ad un’esperienza che scuote, sfida e, infine, purifica. Finché c’è arte, c’è sacralità. E finché c’è sacralità, c’è speranza. foto e trailer Il rito • Ente Teatro Cronaca