Saronno (VA), Teatro “Giuditta Pasta”, Stagione di Prosa 2024/25
“SCENE DA UN MATRIMONIO”
di Ingmar Bergman traduzione Piero Monaci
Adattamento teatrale Alessandro D’Alatri
Giovanni FAUSTO CABRA
Marianna SARA LAZZARO
Regia Raphael Tobia Vogel
Scene Nicolas Bovey
Costumi Nicoletta Ceccolini
Musiche Matteo Ceccarini
Luci Oscar Frosio
Video Luca Condorelli
Produzione Teatro Franco Parenti di Milano
Saronno (VA), 15 gennaio 2025
Non sempre grandi registi sono anche grandi sceneggiatori, e ancora più raramente sono grandi drammaturghi. Il caso di Ingmar Bergman è singolare, ma, ahinoi, non si sottrae a questa legge: il Bergman regista cinematografico è geniale, senza dubbio uno dei massimi maestri di quest’arte, mentre come drammaturgo lo svedese ha spesso raggiunto obiettivi sensibilmente al di sotto delle aspettative. “Scene da un matrimonio“, ad esempio, è una sceneggiatura tutto sommato figlia del suo tempo, ossia di un momento storico in cui maschile e femminile potevano ancora essere concepiti come le due metà di una mela, possibile, per quanto problematica, microsoluzione al macroproblema della relazionalità. Oggi, di quel testo, ci pare complicato salvare la maggior parte: per fortuna ci pensa Alessandro D’Alatri, apprezzatissimo cineasta italiano, che appronta un adattamento della sceneggiatura bergmaniana non solo ai nostri tempi, ma anche alle nostre esperienze di maschile e femminile, in primis italiani, e non alieni alla debacle del primo e all’esigenza di riscossa del secondo – a dirla tutta, si sarebbe potuto spingere anche più in
profondità, ma capiamo che il tentativo di aderenza al testo di Bergman tenga il nostro adattamento al di qua di una soglia borghese, che tuttavia non giova particolarmente alla resa. Giovanni e Marianna, quindi, sono felicemente sposati, sono due professionisti in carriera, hanno due figlie piccole di cui sono fieri, due famiglie con le quali amano relazionarsi: praticamente un incubo, quel tipo di vicini di casa con cui speri di non dover scambiare parole, perché lui sarebbe tronfio della sua vita, e lei troppo loquace nel raccontartela. Grazie al cielo intervengono i primi screzi, le bugie, le incomprensioni, i silenzi, la mancata sessualità, la rottura. Da
essa si originano due nuovi personaggi, un uomo pateticamente ricascato nelle stesse dinamiche che lo soffocavano, e una donna che con coraggio e sofferenza raccoglie i pezzi di una vita, i pezzi di se stessa, e riesce ad emanciparsi dal marito; il finale, però, sembra annullare questi percorsi, livellarli a un “magari se fossimo stati veramente sinceri, sempre l’uno con l’altro, avremmo potuto salvare almeno il bello di questa relazione“, posizione molto di comodo per lui, e che relega lei, in fin dei conti, a una scema sentimentale – insomma, un finale molto bergmaniano, per chi conosce il carattere e la misoginia del regista svedese. Un finale un po’ fuori tempo, su cui forse D’Alatri avrebbe potuto intervenire in maniera più coraggiosa, soprattutto alla luce della precedente scena di violenza domestica. Questo è l’unico
difetto reale che riusciamo a rintracciare nella bella produzione guidata da Raphael Tobia Vogel, che mette a punto una regia piuttosto semplice, cinematografica, e senza dubbio funzionale alle vicende, e davvero benedetta dalle scene di Nicholas Bovey, ultrarealistiche e affascinanti, dal commento musicale di Matteo Ceccarini, molto presente ma mai invasivo, in grado di sottolineare anche le tensioni più striscianti fra i due personaggi, e soprattutto dalle splendide, perfettamente congegnate, luci di Oscar Frosio, che contribuiscono in maniera decisiva alla comunicazione della Stimmung che cambia fra i due personaggi man mano che il tempo passa. I due interpreti offrono prove attoriali estenuanti e muscolari, come prevedibile: di entrambi è decisamente apprezzabile la misura, che li tiene entrambi dentro i ranghi di un’interpretazione pienamente fruibile, per quanto ci si spinga ogni tanto molto ai limiti del sopportabile. Se
possiamo muovere un piccolo appunto, questo si indirizza a Fausto Cabra, che sembra esplorare meno le possibilità del ruolo, forse persuaso che l’“uomo cishet basico” necessiti di una prova altrettanto orientata al basico; in realtà sarebbe stato possibile eviscerare molto di più il personaggio, e non oscillare semplicemente tra incosciente giovialità e sbornia molesta; praticamente impeccabile, invece, Sara Lazzaro, vero motore della drammaturgia, che ad ogni scena riesce a mostrarci una diversa angolatura, un brivido in più del personaggio di Marianna. Insomma, siamo di fronte a due grandi prove d’attori, supportate da un apparato tecnico-creativo di ragguardevole livello – e che giustamente da un anno raccoglie consensi per l’Italia. Magari, la prossima volta, un testo un po’ più politicamente presente a se stesso, renderebbe l’esperienza quasi perfetta. Foto Luca Condorelli
Saronno, Teatro Giuditta Pasta: “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman
