Roma, Teatro Brancaccio: “Mare Fuori: Il Musical”

Roma, Teatro Brancaccio
MARE FUORI: IL MUSICAL
scritto da Cristiana Farina, Maurizio Careddu, Alessandro Siani
regia di Alessandro Siani
con Andrea Sannino, Maria Esposito, Antonio Orefice, Mattia Zenzola, Giuseppe Pirozzi, Enrico Tijani, Antonio D’Aquino, Giulia Luzi, Carmen Pommella, Emanuele Palumbo, Leandro Amato, Antonio Rocco, Christian Roberto, Giulia Molino, Bianca Moccia, Angelo Caianiello, Yuri Pasquale Brunetti, Pascale Langer, Sveva Petruzzellis, Anna Capasso, Fabio Alterio, Benedetta Vari
direzione musicale Adriano Pennino
coreografie Marcello e Mommo Sacchetta
scenografo Roberto Crea
light design Carlo Pastore
costumi Eleonora Rella e Lisa Casillo
Roma, 31 gennaio 2025
Ci sono spettacoli che fanno riflettere, spettacoli che emozionano, spettacoli che segnano un’epoca. E poi c’è Mare Fuori – Il Musical, che sembra aver scelto deliberatamente la via del naufragio, galleggiando in un mare di compromessi e scelte artistiche quantomeno discutibili. Diciamolo subito: l’idea di trasporre sul palco un fenomeno televisivo di tale portata era rischiosa, ma non impossibile. Peccato che la resa scenica sembri più un esercizio di nostalgia seriale che un’opera con una propria dignità teatrale. La trama – o quel che ne resta – cerca di condensare tre stagioni in un susseguirsi di episodi incollati con lo scotch, senza un reale sviluppo narrativo. Il ritmo è schizofrenico: a momenti di frenesia ingiustificata si alternano pause dilatate al punto da far pensare che qualcuno si sia dimenticato di dare il via alla scena successiva. Dove la serie TV riusciva a costruire tensione e profondità emotiva, il musical si accontenta di un collage di momenti iconici, privati però di qualsiasi impatto drammaturgico. La regia di Roberto Crea sembra affidarsi ciecamente all’utilizzo dei Ledwall, nella convinzione che basti una proiezione ad alta definizione per supplire alla mancanza di una vera scenografia. Il risultato? Più che teatro, uno screensaver gigante. Certo, l’effetto visivo in alcuni momenti funziona, ma a lungo andare il tutto assume la staticità di una videoconferenza su Zoom. E se la scena della morte di Viola nella serie lasciava il pubblico con il fiato sospeso, qui l’unica tensione palpabile è quella degli spettatori che cercano di trattenere uno sbadiglio. E qui veniamo al capitano di questa nave alla deriva: Alessandro Siani. L’attore e regista, solitamente a suo agio con il linguaggio comico cinematografico e televisivo, sembra aver smarrito qualcosa di essenziale nel passaggio al teatro. Forse una direzione scenica coerente, forse una visione artistica, forse – e più semplicemente – il concetto stesso di teatro. La messa in scena si muove con la grazia di un camion in retromarcia, priva di organicità e incapace di fornire agli attori un supporto reale. Il problema si acuisce con l’uso sconsiderato del playback: non un semplice escamotage, ma un vero e proprio abuso che priva lo spettacolo dell’unica cosa che il teatro dovrebbe garantire al pubblico – la verità dell’interpretazione dal vivo. È vero che in alcune parti il canto è eseguito dal vivo, ma la resa è talmente incerta da far sorgere il dubbio che, forse, il playback sia la soluzione migliore. Un paradosso affascinante: ci si aspetta che il canto live aggiunga autenticità, ma invece finisce per persuadere il pubblico che forse, in alcuni casi, l’illusione digitale sia meno dolorosa. Il sincronismo tra labiale e audio, poi, è così precario che in certi momenti sembra di assistere al doppiaggio di un vecchio film giapponese, con il suono che arriva sempre un secondo prima o dopo. Ma il vero dramma si consuma nella recitazione, un curioso esperimento tra la declamazione forzata e il puro dilettantismo. Ogni battuta è pronunciata con la stessa sottigliezza di un megafono in una biblioteca, ogni gesto è calcato con foga, come se gridare fosse sinonimo di emozionare. Il risultato? Un melodramma involontario in cui il dolore diventa spettacolarizzazione e il disagio si traduce in pura retorica. Ciò che nella serie era costruito con sottigliezza qui diventa una gara a chi strilla più forte, in un crescendo che potrebbe tranquillamente essere sostituito da una sirena d’allarme antincendio. E poi c’è l’amplificazione. Se esiste un inferno sonoro, Mare Fuori – Il Musical ha trovato il modo di ricrearlo. Il volume è così esasperato che a tratti il pubblico viene investito da ondate di suono che lo lasciano tramortito. Ma il vero capolavoro è l’involontario concerto parallelo che si consuma nei microfoni aperti: tra respiri affannati e sospiri fuori sincrono, si ha l’impressione di essere catapultati in una seduta collettiva di iperventilazione. Sul fronte delle interpretazioni, il panorama è altrettanto disomogeneo. Maria Esposito (Rosa Ricci) si distingue per energia e presenza scenica, riuscendo almeno a dare un po’ di sostanza al proprio personaggio. Ma per il resto, la situazione è più confusa di una fuga in un labirinto. Mattia Zenzola, pur essendo un ballerino di talento, non riesce a dare a Carmine Di Salvo la profondità necessaria, mentre Christian Roberto, nei panni di O’ Chiattillo, sembra essersi smarrito tra il grottesco e il caricaturale. L’unico a emergere con autenticità è Yuri Pascal Langer , il solo a dimostrare una reale esperienza teatrale e una presenza scenica che va oltre la pura imitazione televisiva. Il problema principale, però, è proprio nella caratterizzazione dei personaggi: mentre la serie offriva una stratificazione emotiva e una crescita individuale, qui tutto viene appiattito, lasciando poco spazio all’evoluzione e riducendo i protagonisti a sagome bidimensionali. In definitiva, Mare Fuori – Il Musical si presenta come un’operazione più commerciale che artistica. Una celebrazione della serie che, però, si ferma alla superficie, senza mai scavare davvero nelle tematiche che avevano reso Mare Fuori un fenomeno di culto. L’effetto finale è quello di una copia sbiadita, un’esibizione che, invece di trovare una propria identità teatrale, si accontenta di una trasposizione annacquata e priva di autentico respiro drammaturgico. Il pubblico, o almeno i coraggiosi che non sono fuggiti al primo atto con la scusa di una sigaretta, sembra entusiasta di ritrovare i riferimenti alla serie. Ma per chi cerca vero teatro, l’esperienza è un naufragio annunciato: più che spettacolo, un’operazione promozionale affondata ben prima del gran finale.