Napoli, Teatro Bellini: “Orpheus Groove”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2024/25
“ORPHEUS GROOVE”

Ideazione, Scrittura Scenica, Regia Annalisa D’Amato
Drammaturgia Elvira Buonocore, Annalisa D’Amato
Con: ANDREA DE GOYZUETA, JULIETTE JOUAN, SAVINO PAPARELLA, STEFANIA REMINO, ANTONIN STAHLY

Musiche Annalisa D’Amato, Antonin Stahly
Scenografia Simone Mannino
Costumi Giuseppe Avallone
Sound Design Tommy Grieco
Luci Cesare Accetta
Consulente alla Teoria Musicale Massimiliano Sacchi
Napoli, 12 febbraio 2025
L’angoscia e la disperazione, a volte, determinano le nostre esistenze, e nei momenti di irrisolvibile noia vorremmo soltanto andare altrove. Un altrove indefinito. Ma la voglia di non essere più qui reca in sé, però, soltanto sentimenti inespressi e soffocati – segregati in una cassaforte, al riparo dalla «cattiveria» della vita. Prima, si faceva riferimento alla noia che, però, deve essere osservata come la percepivano i personaggi di Alberto Moravia che, proprio nel suo romanzo La noia, riesce stupendamente a definirla come una «mancanza di rapporti con le cose»; un sentimento che – sempre citando lo scrittore – «consiste principalmente nell’incomunicabilità» con la realtà e con le persone. Stefania Remino, al Bellini, dà corpo e voce alla protagonista di Orpheus Groove, lavoro teatrale ideato da Annalisa D’Amato. La protagonista appare sì annoiata, nel senso moraviano del termine, però sembra anche perfettamente vittima di una «disperazione» estetizzante o romantica. Per lei, però, la noia è anche stanchezza e disperazione inespressa. Il suo è un atteggiamento decadentistico dal carattere «anti-borghese»? È irrimediabile angoscia? Non lo sappiamo: il suo malessere esistenziale, il suo mal di vivere, il suo stato depressivo emergono con evidente chiarezza, soltanto che tutto ciò assume un tono puramente poetico e favolistico e non realistico; un’impostazione realistica avrebbe certamente giovato a una pièce teatrale come questa e alle alte intenzioni del lavoro teatrale (rappresentare, attraverso una rivisitazione del mito di Orfeo, la potenza terapeutica della musica e i suoi effetti benefici sulla mente e sul corpo nei momenti depressivi). La brevità della pièce, la drammaticità esistenzialistica della scena iniziale e la «rapidità», un po’ troppo ottimistica, attraverso cui avviene la risoluzione dei tormenti iniziali, incastrano il testo in una dimensione fiabesca, dal carattere frammentario e «cabarettistico»: la scrittura scenica (di D’Amato), fondamentalmente drammatica, viene interrotta da momenti di «sospensione»: momenti canori ed esecuzioni musicali, curati da D’Amato e Antonin Stahly, e adeguatamente affrontati dal professor Orpheus Shivandrim, fisico del suono e violinista (notevolmente interpretato dall’attore-musicista Stahly), e dalla sua équipe di scienziati (interpretati da Andrea de Goyzueta, Juliette Jouan, Savino Paparella). Incisi scenici anche simpatici (come l’esecuzione del brano Con una rosa di Vinicio Capossela), che si pongono in netto contrasto con la crudezza dei fatti raccontati: la non-vita di una giovane donna, il cui corpo produce soltanto ansia; sotto l’ansia, però, si celano sentimenti e pulsioni repressi. Un messaggio di speranza (decifrato dagli scienziati) si nasconde, infatti, nell’acufene che tormenta la ragazza, e che costringe il suo orecchio a subire la costante presenza di un suono acuto («il suono della fine», così definito dalla donna). Ma la vita, senza piaceri, non è più vita. E facendo ascoltare Gluck cantato da Maria Callas (J’ai perdu mon Eurydice, dall’Orphée et Eurydice) o eseguendo musiche di Bach col suo violino, il professor Shivandrim restituisce nuova vita alla donna. Questo lavoro teatrale è un’enorme partitura, determinata dalla coesistenza di linguaggi vari, da quello verbale a quello gestuale: parole e gesti, però, non sono stati inquadrati entro un’organizzazione gerarchica; una frase e un movimento assumono la medesima potenza espressiva e comunicativa e, dunque, la medesima «dignità» scenica: il «discorso» gestuale si affianca perfettamente alla musicalità delle varie lingue (italiano, francese e inglese) che determinano la partitura teatrale. È un progetto teatrale interessante e ambizioso, la cui brevità, però, consente un «approfondimento» parziale e non esaustivo dei temi trattati, risolti un po’ semplicisticamente attraverso un «ottimistico» epilogo canoro. Il disegno registico (di D’Amato) appare estremamente asciutto, determinato da una lucida scorrevolezza scenica – nonostante la struttura frammentaria del lavoro teatrale. In altri termini, si tratta di una pièce dal carattere dualistico: la concretezza «espressiva» del progetto registico, da un lato; dall’altro lato, l’essenza fiabesca o «mitica» del materiale narrativo. Essenza fiabesca ravvisabile anche nel cosiddetto «linguaggio delle cose», per citare Pasolini. La scenografia, ideata da Simone Mannino e teneramente illuminata da Cesare Accetta, riproduce uno spazio artistico estremamente caratteristico e «pittoresco», scisso tra laboratorio scientifico e studio di registrazione: la versione reale di un’area vagamente magica, che sembra provenire da un film d’animazione. Spazio scenico impreziosito anche dai suggestivi costumi di Giuseppe Avallone, che riescono anche ad acquisire una potenza espressiva. A una dimensione favolistica sembra appartenere anche la scrittura drammaturgica (di Elvira Buonocore e Annalisa D’Amato) che, interpretata dagli attori, assume un carattere estremamente intimistico; una lettura «corale» del testo, determinata da un commovente e accogliente sentimentalismo. Un utilizzo «espressivo» dei microfoni consente agli attori di «amplificare» e marcare l’introspezione affettiva caratterizzante le loro interpretazioni. In definitiva, un lavoro teatrale accolto positivamente dal pubblico napoletano. Foto Lubtchansky, Anna Abet