Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2025
“LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in tre atti e due parti su libretto di Salvadore Cammarano tratto da The Bride of Lammermoor di Walter Scott
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton LUCAS MEACHEM
Lucia JESSICA PRATT
Sir Edgardo di Ravenswood IVÁN AYÓN RIVAS
Lord Arturo Bucklaw VINCENZO PERONI
Raimondo Bidebent MARKO MIMICA
Alisa MIRIAM ARTIACO
Normanno MARCO MIGLIETTA
Allievi della Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Jacopo Spirei ripresa da Alessandro Pasini
Scene Mauro Tinti
Costumi Agnese Rabatti
Luci Giuseppe Di Iorio
Nuova Produzione del Teatro Comunale di Bologna con Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo
Bologna, 22 febbraio 2025
Lucia è titolo che non ha proprio bisogno di presentazioni, a maggior ragione se la si esegua coi tagli di tradizione. Sulla questione, ovviamente, i soliti partiti del “Bene” e del “Male” sanno come collocarsi: e i tagli sono il “Male”. Eppure, in fondo, si tratta di tagli oramai storici; anche tagliare, dopotutto, richiede una certa arte; e infine febbraio è proprio la stagione giusta. Tornando seri, non è soltanto un’altra opera. È proprio un altro modo di intendere l’opera, in generale. L’intellettualmente stimolante rigore filologico contro il gaudente e smaliziato appagamento del pubblico: a quale dei due si imputerà il triste destino dell’opera? In ogni caso, quello che ci vuole, sempre, è la qualità: capace di redimere la più scellerata delle scelte. E la coerenza: che forse qui, per esempio, avrebbe preteso il tradizionale flauto nella celebre cadenza. Benché per i mille motivi che si sanno il vitreo e straniante lucore della glassarmonica o, come qui, del verrofono, sia preferibile — come preferibile, del resto, sarebbe ascoltare l’opera per intero: e siamo tutti d’accordo. Ad ogni modo, quel che resta della Lucia Daniel Oren lo dirige come ormai nessuno più. Sa infondere ad ogni frase uno
straordinario senso del legato, che ne mette al riparo l’eleganza dalla sfrenata passione dell’interprete. Come sorge allora monumentale e vasta, per esempio, la frase “Ah! Quella destra di sangue impura”! Con l’Orchestra del Comunale l’annosa intesa è salda, e col superbo sempre Coro del Teatro Comunale di Bologna diretto da Gea Garatti Ansini. E poi formidabili, irresistibili, trascinanti sono le sue proverbiali strette. Coerentemente con i tagli, briglia sciolta a puntature ed esibizionismi canori. Cosa che si sopporta con piacere, soprattutto per la complicità del buon cast. Lucas Meachem (sullo scalino più alto del podio
personale di chi scrive) alla rara bellezza che la natura ha voluto riservare al suo timbro luminoso, aureo, unisce una solidità e una sicurezza invidiabili. Certo, l’accento, se proprio gli si vuol muovere un appunto, è un pochetto brutale: del resto il baritono è sempre corrucciato per sua intima costituzione. L’ovazionatissima Jessica Pratt, uscita a sipario chiuso dopo la pazzia (quando si diceva la coerenza: un bel tuffo, anche questo, nella prima metà del secolo, quello scorso), incanta ancora con la dolcezza dei suoi pianissimi, con fiati sorprendenti, con la squisita femminilità del suo delicato strumento. C’è però, va detto, qualche suono che scivola nella fissità, o che nasce incerto, e poi si riprende; in ultimo, volendo, un poco più sostanziosa nei centri si potrebbe desiderare la voce d’una Lucia. Iván Ayón Rivas è un avveduto fraseggiatore, fervente ma tutto sommato garbato, che esibisce una voce nerboruta e dal timbro grato. E se la caduta scenica merita una speciale menzione di lode, forse solo l’emissione potrebbe essere un poco più rilassata. Gran peccato davvero aver orbato della sua scena ed aria il povero Raimondo, perché nel canto elegante e nella voce pastosa di Marko Mimica la si sarebbe ascoltata con
particolare delizia. Completano il cast l’Arturo di Vincenzo Peroni, l’Alisa di Miriam Artiaco e il Normanno di Marco Miglietta. Resta da dire della regia di Jacopo Spirei, che non sembra, purtroppo, funzionare granché. La scena di Mauro Tinti è composta di larghi pannelli sui quali appare, stampata, la sintesi grafica di una foresta brumosa. Allo scorrere d’uno di questi, compaiono le gigantografie d’una foglia dalle venature rosso brillante prima, di un fiore screziato poi. Ci troviamo, è lecito dunque supporre, in un luogo della mente. Qui, i maschi non rinunciano all’eleganza del completo, mentre le loro signore,
sulle quali esercitano un possesso brutale, vestono leggeri abitini dalle tinte pastellate. A Lucia la costumista Agnese Rabatti riserva invece una lunga camicia tartan, sotto l’impermeabile. Ma l’unico autentico scozzese è Arturo, con tanto di kilt: allora, forse, è in Scozia che ci troviamo?Edgardo, comunque, è l’outsider: in jeans, t-shirt e giubbotto di pelle, come Marlon Brando in The Wild One, è l’unico sentimentale fra tutti quegli eleganti violenti. La narrazione scorre piuttosto placidamente secondo la consuetudine; non senza, per verità, alcune accortezze degne di plauso: che, per esempio, al “vacilla il piè” Lucia cada. Ma l’estetica dello spettacolo resta tristemente inappagante e, se che la donna sia la vittima di questa vicenda l’abbiamo capito e lo sapevamo, poco soccorre la regia. Foto Andrea Ranzi
Bologna, Teatro Comunale Nouveau: “Lucia di Lammermoor”
