Il colloquio con Salvatore Sciarrino nasce dall’incontro al Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna. L’intervista va intesa come approccio verso una musica che necessita di percezione e nuovi modi di essere pensata, avvicinandoci, attraverso alcuni aspetti dei suoi lavori, al modo di comporre.
Come si colloca l’opera di Sciarrino all’interno della musica contemporanea?
Preferisco indicare alcuni aspetti, anziché dare definizioni rigide. La mia è una musica acustica, ecologica. Fisiologica, cioè formata da fenomeni periodici; la musica respira sia per l’ampiezza delle proporzioni periodiche (che possono essere molto variabili), sia perché essa introduce la percezione fisica del respiro amplificato dagli strumenti, in particolare dal flauto.
Le mie emissioni strumentali non sono quelle consuete; questa musica suona diversa dalle altre e decisamente irreale. Il tempo è discontinuo e multidimensionale; come per uno zapping, salta da una dimensione all’altra. Le articolazioni melodiche vengono
fortemente geometrizzate e direzionate (quasi fossero vettori) perciò risultano originali ed espressive. Non avendo mai posto confini per separare antico e moderno, etnologico ecc., talvolta frammenti di musiche estranee si affacciano all’interno del mio discorso sonoro.
Può descrivere la figura del compositore oggi e quanto è cambiata rispetto al passato?
La vita è di per sé cambiamento: muta la società, mutano le persone. Porto un solo esempio. sarebbe possibile pensare Beethoven senza le marce militari? Assolutamente no. Gli eserciti si spostavano a piedi e le marce facevano parte del quotidiano urbano di allora. Niente di ciò oggi è sopravvissuto.
Viaggiamo in macchina, in treno, in aereo e dunque la nostra percezione dello spazio/tempo è ormai diversissima; lontana per sempre pure dall’epoca di Mozart con le sue carrozze a cavalli. La figura attuale del compositore non può essere la stessa rispetto a qualunque altra epoca, sebbene ci illudiamo che tutto debba tendere alla stabilità.
Nel suo libro Le figure della musica da Beethoven a oggi, relativamente alla scarsa diffusione della musica contemporanea, dichiara che l’indifferenza “non deriva tanto da mancanza di comprensione del moderno, quanto all’antico”. Può chiarire ulteriormente?
Oggi siamo sommersi dalla musica. Dappertutto, nelle strade, nei caffè, nei negozi. Restiamo storditi da questo sottofondo e non prestiamo più attenzione alla musica, e il silenzio ci viene sottratto. Questo uso commerciale della musica, il puro intrattenimento, è un modo di soffocare le persone, di togliere i momenti di vuoto necessari per riflettere sulla propria situazione umana e sociale.
Per godere di qualsiasi musica invece bisogna prestare un po’ di attenzione. La musica ci prende per mano e vuole che seguiamo quello che ci racconta: è un’esperienza anche razionale, ma è soprattutto un’immediata emotività che caratterizza il linguaggio sonoro dalle altre arti.
Quanto alla musica contemporanea essa viene subito riconosciuta e schivata con intolleranza perché richiederebbe ancora maggior impegno. L’ascolto quotidiano che il mondo ci offre è totalmente disimpegnato.
L’attenzione verso il colore nelle sue composizioni può essere concepita come un topos del suo linguaggio? Quali ‘novità’ rispetto alla Klangfarbe di Schoenberg?
La Klangfarbe di Schoenberg è un’intuizione importante che nasce in un contesto di suoni tradizionali. La musica antica veniva “colorata” dall’alternanza e dalla mescolanza degli strumenti e delle famiglie di strumenti. Ma le mie composizioni si aprono a nuove tecniche di emissione del suono, io non parto dalle note convenzionali. Sono implicati da me altri concetti organizzativi, al di là di quelli verbali: evito le vecchie logiche discorsive. Uso concetti più organici che incidono più a fondo sulla natura fisica del suono, come: costellazioni, eventi sonori, suoni/massa, etc.
Nelle sue opere teatrali come concepisce il rapporto con il testo letterario?
Eccetto la mia prima opera (Amore e Psiche), mi sono sempre ingegnato in prima persona nella stesura dei libretti, e soprattutto nella concezione del dramma. Teatro non significa semplicemente che qualcuno si muove sul palcoscenico: è molto, molto di più. Quando ho cominciato a comporre i miei colleghi avevano orrore di raccontare una storia, di tornare a un racconto scenico. Nel loro falso conformismo alla moda dell’avanguardia non capivano che il miracolo del rappresentare sta nel fatto che l’attore diventa qualcun altro e che simultaneamente lo spettatore, seduto in poltrona, viene trasportato con la mente in un altro luogo e partecipa alle emozioni dei personaggi. Ritengo che anche il tempo teatrale debba diventare una dimensione discontinua, può essere tagliato e montato: il teatro, insomma, riconcepito dopo il cinema, fecondato dal cinema, accogliendo altre drammaturgie.
Secondo lei quali sono le prospettive dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale in campo compositivo?
L’intelligenza artificiale potrebbe essere straordinaria. Tuttavia è entrata nel nostro spazio vitale così profondamente tanto che è difficile vederne i contorni, i difetti e i problemi di cui è causa. Per esempio, anziché semplificare, ha complicato l’attuale burocrazia, ha diminuito la capacità di memoria e di autonomia dell’individuo. Com’è ovvio il computer viene sopravvalutato, sebbene sia difficile farne a meno. Fra i musicisti esso crea l’illusione che comporre sia solo un insieme di combinazioni: mentre è l’imprevisto, l’irrazionale che configurano le invenzioni di un artista, non ciò che è alla portata di tutti.
Quindi, per l’uso disimpegnato, continuo e ludico che i giovani per ora ne fanno, l’intelligenza artificiale è devastante e livellante per le capacità creative. La facoltà di immaginare ne viene ingannata, ridotta e, spesso, paralizzata.
“Una partitura … quanto un quadro, una poesia o un libro può contribuire e fondare una coscienza se le qualità tecniche si mantengono allo stesso livello di quelle ideologiche”. Condivide questo pensiero di Nono? Quali altre motivazioni possono essere prese in considerazione sul comporre?
Non condivido questo pensiero che sembra scindere forma e contenuto, il corpo dall’anima. La tecnica non può essere considerata un arnese, e l’opera è un insieme organico che configura lo stile di un lavoro e, di conseguenza, la sua ideologia.
Forse la frase, così estrapolata, perde un po’ del suo significato originale. Nono è stato un grande artista e per me un vero amico. A parte la complicità che ci legava negli ultimi suoi anni, era “una bella testa”, come si usa dire, il che non è cosa frequente fra gli artisti. Foto Luca Carrà