Parma, Teatro Regio, Stagione Lirica 2025
“GIOVANNA D’ARCO”
Dramma lirico in tre atti su libretto di Temistocle Solera dal dramma Die Jungfrau von Orléans di Friedrich Schiller.
Musica di Giuseppe Verdi
Carlo VII LUCIANO GANCI
Giovanna NINO MACHAIDZE
Giacomo ARIUNBAATAR GANBAATAR
Delil FRANCESCO CONGIU*
Talbot KRZYSZTOF BACZYK
*Già allievo dell’Accademia Verdiana
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Michele Gamba
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Luci Luigi Biondi
Coreografie Manuela Lo Sicco
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
Parma, 1 febbraio 2025
Povera Giovanna! L’accusa di stregoneria è il meno. Assurdo e fin ridicolo il libretto del povero Solera, bandistica e paesana la strumentazione del povero Verdi, l’ingenuo Primo Verdi. Poco e niente da salvare, insomma: sempre che non la si consideri come il tentativo, intellettualmente appassionantissimo, di innestare alcuni caratteri del grand opéra nella tradizione italiana, insomma di far della cosiddetta musica “filosofica”. Operazione che (a documentarlo è la meticolosa e illuminante ricerca di Gloria Staffieri) la coppia fatidica Verdi-Solera aveva tentato già col Nabucco e più coi Lombardi, sempre alla Scala. Il gusto per il sovrannaturale, il merveilleux, tipico del romanticismo europeo, è affatto estraneo all’italiano, che puntualmente lo rigetta (storia che si ripete col Macbeth). Quanto al genere pomposo e solenne cui lo stile verdiano già pare versato, meglio sanno apprezzarlo i parigini dal gusto eclettico e raffinato, rispetto ai milanesi “amateurs des cabalettes” (così scrive un simpatico H. W. sulla Revue des deux mondes). Infine, che qui, per la Giovanna, il modello fosse da ricercarsi nel Robert le Diable di Meyerbeer era per i contemporanei semplicemente lampante: non ne fa mistero, per primo, il fido Muzio, in un report-anticipazione per casa Barezzi. Opera non da buttare allora, a partire dalla celebre sinfonia, di valore riconosciuto anche dai critici più feroci. Michele Gamba opta per
un suono asciuttissimo, secco addirittura, e un piglio severo, energico, quasi sbrigativo. La Filarmonica Toscanini, imbrigliata sotto il giogo della sua volontà di iper-controllo, risponde con lodevole esattezza, tremoli fittissimi, pianissimi di grande suggestione. È una direzione che cerca d’animare l’accompagnamento al canto concedendo(si) qualche rallentando e qualche stringendo (inevitabili, verrebbe voglia di dire), ma per il resto non dimostra grandi sensibilità e generosità per le ragioni e le necessità del canto e dei cantanti, cui pare riservare un certo qual sovrano distacco. Impeccabile invece il rapporto fra buca e complesso di palcoscenico, cruciale per i cori angelici e demoniaci (plausi al Coro del Regio diretto da Martino Faggiani) ma ancor di più per il gioco dentro-fuori della Cattedrale di San Dionigi. Davvero strano che Gamba, così l
igio alla partitura, si sia lasciato sfuggire quegli abituali ma oggi ridicoli smussamenti del libretto (il più innocuo “Non sacrilega sei tu?” in luogo del previsto “Pura e vergine sei tu?”). Nel terzetto dei protagonisti spicca Ariunbaatar Ganbaatar che stupisce tutti con una voce ben timbrata e nerboruta, che si esprime con una dizione chiara e un fraseggiare eloquente e oculato. Connazionale del fenomeno Enkhbat, accende l’entusiasmo dei vociomani, lieti di inaugurare la “scuola mongola”. Luciano Ganci è invece una rassicurante certezza. Timbro luminoso, squillo esaltante, suono ben proiettato in avanti: è quello che si ha in mente quando si parla di scuola italiana. Il fraseggio è molto sfumato, curatissimo
ed elegante, forse più del solito. Convince meno soltanto nella sua cabaletta iniziale, dalle rinunciabili variazioni. Nino Machaidze affronta l’impervia scrittura della protagonista con una postura vigorosa e si direbbe fin quasi aggressiva: e ne esce indubbiamente vincitrice, al prezzo di un certo garbo. Ma forse, si penserà, la pulzella guerriera può anche farne a meno. Certo non giova il timbro dalle risonanze vagamente vetrose, tuttavia il registro acuto resta saettante e sicuro. Scendendo invece la voce non è proprio traboccante di corposa rotondità, circostanza cui cerca di supplire con un’emissione imperiosa. Ad ogni modo si tratta di un ottimo cast, completato dal sonoro Delil di Francesco Congiu e dal Talbot di
Krzysztof Baczyk. Con la sua consueta squadra, Carmine Maringola alle scene e Vanessa Sannino ai costumi, Emma Dante propone uno spettacolo visivamente allettante, nient’affatto stucchevole, equilibrato anzichenò: la cui immagine iconica è una Galleria Spada in versione floreale. Ma c’entra sempre anche la Sicilia, e infatti della Madonna appare una statua lucineggiante, scrupolosamente portata in processione; che non sta ai piedi della citata quercia, ma di un Ficus macrophylla, come quello monumentale dell’Orto Botanico di Palermo, che dona un tocco di esotismo alla selva di Orléans. Quel che è curioso notare di questa regia è che in alcuni punti sembrerebbe andare deliberatamente e senza evidente ragione contro la lettera del libretto. Per esempio, quando il Re rincorre Giovanna fuori della Cattedrale e le si rivolge dicendo: “io primo a te mi prostro”, quella subito s’inginocchia davanti a lui, che invece resta in piedi. O, ancora, è strano che la protagonista imprigionata rivolga al padre le parole “Tu che all’eletto Saulo hai le catene infrante, spezza or le mie”, quando a tutti è noto come le catene dell’eletto Saulo non siano state spezzate da Giacomo, il padre di Giovanna, ma da Dio, nientemeno. Simili modeste questioni di regia spiccia potranno anche lasciare perplessi, ma non compromettono l’esito, nel complesso felice, di questo spettacolo inaugurale.
Parma, Teatro Regio: “Giovanna D’Arco”
