di Jean Genet.
Traduzione di Monica Capuano
Esistono dei classici della drammaturgia del Novecento: non sono molti, ma sono quei testi così folgoranti che, praticamente, si mettono in scena da soli, poiché il portato e il ritmo che li caratterizzano bastano allo spettatore per fruirne appieno. Con l’avventatezza e la spregiudicatezza del giovane ribelle che si approccia alla scena, Jean Genet nel 1946 seppe regalarci proprio uno di questi classici, “Le serve“, testo dai contenuti importanti, capostipite del genere del gioco al massacro. La storia, già di per sé, presenta tratti di originalità e perturbanza non indifferenti: Claire e Solange sono le cameriere di una non meglio definita “Signora”, che si divertono, mentre la padrona esce la sera, una a imitare mentre l’altra prende l’identità della collega, costringendosi a bassezze, ripicche, agguati, che portano in scena tutta la micragnosità e la disperazione della lotta di classe, oltre allo stato di pura alienazione da se stesso che il proletariato soffre. La sera a cui assistiamo noi, tuttavia è diversa dalle altre, giacché Solange avrebbe dovuto uccidere la padrona (quella vera) e l’amatissimo (per quanto fatto becco) padrone è stato incarcerato; in ogni caso, le serve deliberano di riprovare l’omicidio con una tisana avvelenata, ma la telefonata che il padrone è già stato rilasciato complicherà precipitevolmente le cose. Pur essendo il primo testo di Genet possiamo già cogliere gran
parte dei caratteri tipici della sua letteratura: la tragicità del vivere, la crudeltà del quotidiano, il confine labilissimo tra finzione e realtà, che porta l’una a confondersi nell’altra, la amara delusione per una società annichilente e omologante, la morte come salvezza e benedizione. La messa in scena a cura di Veronica Cruciani si preoccupa unicamente di dare la giusta cornice, i giusti attacchi, a questo capolavoro di dialogo, e sa farsi notare senza chiasso, semplicemente mettendo gesti e colori che la pagina non può riportare; le scene di Paola Villani sono molto ben congegnate, e consistono in diversi baule bauli forma e dimensione, che pian piano si rivelano i pezzi di mobilio della camera della signora; le luci sono perfettamente disegnate, tutte su toni freddi, ben contrastate; i costumi di Erika Carretta hanno il grande pregio di essere perfettamente funzionali ai personaggi – specialmente quello della Signora, androgino e allo stesso tempo
lussureggiante, sa cogliere anche le sfumature del personaggio. Sulle tre interpreti c’è poco da dire, in quanto tutte e tre impegnate in prove memorabili: Beatrice Vecchione è una Claire apparentemente bambole e prudente, in grado, però, anche di rivelarsi tetra e crudele, con una fisicità a tratti goffa e a tratti fascinosa; Matilde Vigna conferisce a Solange un carattere magnificamente viscerale, contraddistinto da una vocalità singolarmente estesa verso il basso; infine, Eva Robin’s si riconferma una grande interprete della sua generazione: la sua è una Madame sprezzante e divistica, umorale e autoritaria, sentimentale e spietata, fisicamente e vocalmente presente al suo ruolo. Insomma queste “Serve” costituiscono uno spettacolo mirabile, probabilmente uno dei più riusciti delle ultime stagioni – grazie a uno di quei testi veramente necessari alla contemporaneità. Da non perdere. Foto Laila Pozzo