Roma, Teatro Vascello: “Bocconi Amari – Semifreddo”

Roma, Teatro Vascello
BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO
Scritto e diretto da Eleonora Danco
con Eleonora Danco, Orietta Notari, Federico Majorana,
Beatrice Bartoni, Lorenzo Ciambrelli

Costumi Massimo Cantini Parrini 
Assistente costumi  Jessica Zambelli
Scenografia Francesca Pupilli e Mario Antonini
Luci Eleonora Danco
Musiche scelte da Marco Tecce
aiuto regia Manuel Valeri e Maria Chiara Orti
regia Eleonora Danco
produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello – Teatro Metastasio di Prato.
“Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila.” – Giordano Bruno
La scena si apre su una casa che è un acquario, uno spazio di convivenza forzata dove i personaggi si osservano e si sbranano a vicenda. Eleonora Danco, autrice, regista ed interprete , orchestra un dispositivo scenico che, nell’estetica del frammento, compone una sinfonia emotiva in due movimenti. Il primo atto, “Bocconi Amari“, parla di una famiglia che si ritrova per un pranzo. Come accade in molte famiglie, quando sono in casa regrediscono a comportamenti infantili: si picchiano, si aggrediscono, i fratelli sono in competizione. Il testo si agita di tensioni domestiche, battute affilate come coltelli che incidono la memoria, rivelando cicatrici e ferite ancora fresche. La tavola diventa un’arena, il cibo un pretesto per riaprire vecchie ferite, e ogni battuta si trasforma in un dardo avvelenato che colpisce nel profondo. Il secondo atto, “Semifreddo“, i personaggi invecchiano perdendo intonaco come un muro che si sgretola, simbolo della vecchiaia come progressivo sbriciolarsi. Il secondo atto si muove su un doppio binario temporale, un’eco che ritorna in un gioco di luci e dissolvenze, tra passato e presente, tra la farsa e il dramma. La giovinezza viene evocata attraverso gesti e frammenti di dialogo che si sovrappongono alla condizione attuale dei protagonisti, evidenziando il contrasto tra la vitalità del passato e la decadenza del presente. Eleonora Danco porta in scena un teatro profondamente personale e sperimentale, in cui è al contempo interprete, autrice e regista. Il suo linguaggio scenico fonde teatro di ricerca, fisicità esasperata e suggestioni cinematografiche, dando vita a un’esperienza che oscilla tra il grottesco e il lirico. Il corpo è il fulcro della narrazione: gli attori non si limitano a recitare, ma abitano la scena in uno stato di tensione continua, i loro movimenti sono acrobatici, spezzati, quasi disarticolati, restituendo un senso di disagio esistenziale e di conflitto con la realtà circostante. Gli interpreti, in particolare la stessa Eleonora Danco e Orietta Notari, restituiscono con una potenza rara la trasformazione della materia umana nel tempo, in bilico tra giovinezza ed esaurimento, tra energia e disincanto. Federico Majorana e Beatrice Bartoni sostengono con un certo rigore il contrappunto emotivo, mentre Lorenzo Ciambrelli porta in scena una fragilità che sa farsi detonazione. Il linguaggio si muove tra un realismo crudo e una dimensione poetica, in cui il parlato diventa ritmo sincopato, quasi musicale, scandito da ripetizioni ossessive e sprazzi di feroce ironia. Per molti in sala sembrerebbe poco attento e curato ,ma è la cifra stilistica dell’autrice che si fa sempre più largo. La scenografia di Francesca Pupilli e Mario Antonini è minimale e simbolica: pochi elementi evocano stati d’animo e dinamiche familiari irrisolte, trasformando lo spazio in un territorio di battaglia psicologica. L’assenza di strutture complesse e stratificate diventa allora un elemento drammaturgico: il vuoto della stanza rispecchia il vuoto interiore dei protagonisti, mentre l’ombra dei ricordi si proietta sulle pareti nude. La direzione registica mescola elementi teatrali e cinematografici, con flash, dissolvenze e scene che sembrano quadri in movimento, amplificando il senso di straniamento e di sovrapposizione tra i piani temporali. Il montaggio scenico è frammentato, onirico, spezzato da momenti di pura fisicità che esplodono in contrasti violenti e commoventi: il corpo si fa verbo, il suono diventa immagine, il tempo non è lineare ma si sovrappone e stratifica e costruisce un’architettura di relazioni che si sfaldano e si riformano, trasformando il dramma familiare in una partitura universale, dove il gesto e la parola si rincorrono in un flusso ininterrotto. C’è un che di beckettiano nel disfacimento dell’identità e nel senso di ineluttabilità che avvolge i protagonisti. Ma c’è anche una visceralità tutta italiana, un realismo visionario che trova nella danza teatrale della Eleonora Danco la sua più alta espressione. L’ultimo quadro è un vortice emotivo in cui i personaggi, ormai privi di difese, si mostrano nella loro nuda vulnerabilità. Le voci si sovrappongono in un crescendo di tensione e disperazione, finché la scena si spegne su un’ultima, lacerante immagine: un padre che, come un Re Lear moderno, rimane solo con il suo trono di assenze. Quando le luci si riaccendono in sala,  il pubblico rimane incerto. Il silenzio si prolunga oltre il consueto, quasi come se il significato dell’ultima scena sfuggisse alla comprensione immediata. Poi scattano gli applausi, ma sembrerebbe che qualcosa nell’energia del pubblico sia trattenuto, esitante. Alcuni spettatori si guardano attorno, come in cerca di conferma, altri applaudono con vigore, ma senza quell’unanimità che solitamente accompagna una pièce di tale impatto. Il teatro di Eleonora Danco per chi ha già visto altre sue rappresentazioni travolge e scuote, ma mette anche  alla prova la percezione e l’emotività del pubblico, lasciandolo sospeso in un limbo tra catarsi e incomprensione, tra il bisogno di applaudire e l’incapacità di decifrare appieno ciò che ha appena visto.