Roma, Teatro Vascello
IL MINISTERO DELLA SOLITUDINE
uno spettacolo di lacasadargilla
parole di Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano
drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
con Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano
drammaturgia del movimento Marta Ciappina
cura dei contenuti Maddalena Parise
spazio scenico e paesaggi sonori Alessandro Ferroni
luci Luigi Biondi
costumi Anna Missaglia
aiuto regia Alice Palazzi / Caterina Dazzi
assistente al disegno luci Omar Scala
costumi realizzati da Officina Farani
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro di Roma-Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello
in collaborazione con lacasadargilla
con il sostegno di ATCL
Roma, 21 febbraio 2025
Il teatro si fa specchio impietoso della società, e Il Ministero della Solitudine ne è un esempio lampante. Un dispositivo scenico calibrato al millimetro, uno spaccato di un mondo che inghiotte i suoi abitanti, una parabola crudele sulla solitudine burocratizzata e resa sistema. La firma di Fabrizio Sinisi alla drammaturgia e la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni costruiscono un ingranaggio perfetto, un meccanismo teatrale che inchioda lo spettatore davanti all’inquietante normalizzazione dell’isolamento. Cinque storie, cinque individui persi in un non-luogo amministrativo che sembra uscito da un incubo kafkiano. Il Ministero della Solitudine non si occupa di lenire il disagio, ma di renderlo protocollo, prassi, routine. Lì dentro, anime inquiete si muovono senza trovare direzione: Alma (Giulia Mazzarino) cerca di fuggire dal cambiamento rifugiandosi nell’astronomia; Primo (Emiliano Masala) si aggrappa a un simulacro di compagnia; F. (Francesco Villano) trasforma il terrore dell’estinzione in ossessione apistica; Teresa (Caterina Carpio) lotta contro i ruoli imposti; Simone (Tania Garribba) si aggrappa al rigore delle norme senza concedersi il lusso del dubbio. Ognuno incastrato nel proprio microcosmo, ognuno incapace di spezzare il cerchio.
La regia di Ferlazzo Natoli e Ferroni lavora per sottrazione: ogni movimento, ogni pausa, ogni sguardo si carica di un peso insostenibile. Gli attori abitano la scena con una presenza calibrata, mai retorica, e il risultato è un teatro che non consola ma incide, ferisce, costringe alla riflessione. Il linguaggio è chirurgico, asettico, e proprio in questa sua secchezza si fa micidiale. La partitura sonora di Alessandro Ferroni non accompagna, non sottolinea, ma si fa contrappunto disturbante: ogni suono è un inciampo, un’eco di qualcosa che è stato e che non sarà più. Non mancano le incursioni musicali ironiche, crude, nostalgiche: dai Placebo a David Bowie, dagli Eurythmics a Lucio Battisti, la colonna sonora è un gioco feroce tra leggerezza e disincanto, culminando in un finale grottesco in cui la solitudine si maschera da festa, il vuoto si fa karaoke, e la disperazione assume le forme di un’ultima, stonata, canzone d’addio.
A rendere il tutto ancora più perturbante è la drammaturgia del movimento firmata da Marta Ciappina: corpi spezzati, movimenti convulsi, un teatro fisico che non danza ma si frantuma, una coreografia che traduce in gesti l’impossibilità dell’incontro. I personaggi entrano in scena in una lunga sequenza iniziale che li vede quasi posseduti da una febbre cinetica, gesti automatici, disarticolati, privi di reale volontà. Una partitura visiva che rende tangibile la frattura tra il desiderio e la possibilità, tra il bisogno di connessione e l’incapacità di realizzarlo. L’impianto scenografico segue lo stesso principio: un monolite triangolare girevole, una geometria alienante che riflette la chiusura esistenziale dei personaggi. Il Ministero, con la sua algida burocrazia, non è altro che una macchina infernale che trasforma l’essere umano in pratica amministrativa. Qui la vita è ridotta a dati, statistiche, liste d’attesa.
La sofferenza è tabulata, l’angoscia è normalizzata, e il teatro si fa specchio spietato di una realtà che non sembra troppo distante dalla nostra. Lo spettacolo procede per quadri slegati, in cui le vite dei personaggi si intersecano senza mai toccarsi davvero. Un puzzle incompleto, in cui ogni pezzo rimane incastrato nella propria sezione, incapace di trovare una vera connessione con l’altro. Il vuoto relazionale diventa così una forma strutturale, resa ancora più potente dalla scelta di una recitazione trattenuta, controllata, che amplifica il senso di alienazione generale. E poi arriva il finale, che scarta ogni possibile redenzione. Non c’è epifania, non c’è riscatto, non c’è speranza: c’è solo una resa grottesca, un canto collettivo che non è liberazione ma mascherata, non è comunione ma illusione. Only You, la scritta al neon che incombe sulla scena, non è promessa ma condanna: solo tu, e nessun altro. Un inno beffardo all’individualismo, un mantra velenoso che dissolve ogni illusione di comunità. Uno spettacolo necessario, spietato, feroce. Un teatro che non consola, non accontenta, non concede tregua. Il Ministero della Solitudine non offre vie di fuga, non fa sconti. E proprio per questo è un’esperienza che resta, che scava, che si insinua nella mente dello spettatore. Teatro come bisturi, come pugno nello stomaco, come scomoda verità sulla nostra epoca. Un lavoro che fa male e, proprio per questo, indispensabile. Photocredit Claudia-Pajewski