Bari, Teatro Piccinni: “Un Sabato, con gli Amici”

Bari, Teatro Piccinni
Rassegna nazionale “Camilleri 100”
UN SABATO CON GLI AMICI
Di Andrea Camilleri
Andrea ALBERTO MELONE

Renata SILVIA DEGRANDI
Fabio LUCA AVAGLIANO
Giulia MARCELLA FAVILLA
Gianni FABRIZIO LOMBARDO
Anna ALESSANDRA MORTELLITI
Matteo PIERLUIGI CORALLO
Una produzione “Malalingua” in collaborazione con “Alt Academy”, “Associazione Fondo Andrea Camilleri ETS”, “Puglia Culture”
Libero adattamento e regia Marco Grossi
Scene Filippo Sarcinelli
Musiche originali Oliviero Forni
Luci Claudio de Robertis
Costumi e assistenza alla regia Monica De Giuseppe
Organizzazione Marianna de Pinto
Bari, 15 marzo 2025, Prima Nazionale
Siamo nell’incantevole Teatro Piccinni di Bari. È un sabato di metà marzo. In scena, tutto il genio adombrato, meno conosciuto di Andrea Camilleri, ad aprire con un dramma, anticipo, magistralmente concertato e interpretato, la rassegna culturale nazionale “Camilleri 100” (per i cent’anni dalla nascita dello scrittore di Porto Empedocle). “Un sabato, con gli amici” (Mondadori, 2009), romanzo eponimo della pièce che si dipana sul palco, è una creatura particolare, lontana e di parecchio dalle assolate, bluastre, barocche ambientazioni «montalbaniane» che hanno reso famoso, in tutto il mondo, il prosatore siciliano. Diciamo pure che si tratta, concepita da quel filtro scintillante che è la mente stessa di Camilleri, di un’opera i cui antenati sono riscontrabili tanto nelle penne e nelle «visioni» di Pirandello e Moravia, quanto negli insegnamenti registici di Orazio Costa. Sì, perché è un romanzo «teatralissimo», una scrittura con una spiccata capacità di carotaggio, scavo, rinvenimento di quella cisterna sensibilissima agli stimoli ch’è l’animo umano, di tutto quel che di sordido questa può contenere e, una volta raggiunto il «carico di rottura», di tutto ciò che non riesce più a trattenere. Cala il silenzio, le luci impattano, nell’oscurità, il sipario ancora serrato, il cast si dispone a schiera e comincia a raccontare. Donne e uomini che parlano con tono bambino, impostazione e parole infantili; che raccontano, uno per uno, un evento che, da piccoli, li ha inequivocabilmente sfregiati, traumatizzati, segnati. Poi, il drappo vellutato si spalanca. Davanti agli occhi, in un vortice di luci (sapientemente gestite tanto nei predefiniti momenti di confusione, quanto negli assoli recitativi) e musiche mesmerizzanti (buona campionatura e riscrittura musicale dei motivetti dei videogiochi di fine millennio), tutti gli attori in causa che scorrazzano, in uno slalom fra grandi riproduzioni di giocattoli tardonovecenteschi, su macchinine elettriche, quasi fossero all’autoscontro o su go-kart. Una scelta, stando al parere di chi scrive, azzeccata che riesce a evidenziare – avrebbe detto il poeta campano Luigi Compagnone – «la giovinezza reale e l’irreale maturità» dei personaggi. Poi, di colpo, il buio e il silenzio nuovamente avvolgono tutto. Ed ecco, definitivo, l’atto unico, intervallato solo da sporadiche, torbide, solitarie confessioni dei personaggi (a «bocce ferme» e faro cianotico puntato, per l’appunto), utili a ricostruire la trama (colpo di regia Off Broadway quello di frastagliare, in questo modo, la narrazione). Siamo in una grande città italiana, contesto spudoratamente non proletario, a casa di una delle tre coppie di amici che, sin dai tempi dell’università, hanno eluso l’ipocritissimo «non facciamo che ci perdiamo», effettivamente restando «legati». Si incontrano, acchè la messinscena che smangia le loro esistenze riesca a tenersi senza troppa difficoltà, appena una volta al mese, organizzando cene a tema. La dimora in cui tutto il tragico di questa vicenda si svolge, sapientemente imbellettato di comico dal sempre impeccabile Marco Grossi alla regia, è quella di Andrea (Melone funziona bene nelle sue mansioni di «macchietta smorzante» – mentre si strugge per il risultato di una partita di calcio – e di mente dominata da un kink scellerato) e Renata (assieme a Mortelliti e Lombardo, la migliore: folgorante Degrandi al punto da ricordare la Nanà di Zolà) che, sin dalle prime battute, lasciano trapelare la vicendevole matrimoniale mal sopportazione. La cena è a tema thailandese, l’esotico noioso borghese. L’inciampo all’inizio, a cortina di finzione intoccata, è quello, al più, ridanciano, di non aver cucinato la portata più originale. Arriva, dunque, la seconda coppia, la più naif e «sana» della serata, composta da Fabio e Giulia (una recitazione curata, quella di Favilla e Avagliano, unici due personaggi con cui si riesca effettivamente a «empatizzare» prima del finale) e, nel dialogo odioso, viene svelato il composto chimico, un «povero diavolo ex-machina», che farà detonare la bauta che adorna la vita di questi sei individui. Costui è Gianni (interpretato da Lombardo, ineccepibile nel suo agire in scena e nella sua ormai proverbiale mimica parossistica), omossessuale, «compagno» e collega universitario del gruppo, da qualche tempo lanciatosi in politica; lì con loro, apparentemente, per racimolare voti. L’intreccio avanza, lo strappo rattoppato negli anni alla bell’e meglio si sdruce (e già che siamo in tema di stoffe, un plauso va alla costumista per aver cucito indosso ai cuori di questi personaggi, giacché forma e colore del vestiario sono dirette proiezioni dell’inner dei protagonisti). Emergono inganni, rapporti clandestini, violenze subite, osservate o perpetrate, feticismi spettrali, accadimenti conturbanti che ci costringono a tenere gli occhi incollati sui recitanti, che quasi obbligano ad una partecipazione emotiva allo spettacolo indubbiamente fuor di consuetudine. L’ultima coppia è quella formata da Anna (Mortelliti, nipote di Camilleri: disinibita, puntuale nelle nevrosi, travolgente… in una parola: perfetta) e Matteo (il contributo di Corallo è, al solito, di gran pregio), fra le figure più abiette della narrazione scenica. Nel momento in cui Gianni compare sul palco (come già detto arredato – un rischio corso, data la distanza dalla realtà, ma che paga – con grandi balocchi, valido contraltare alle tinte grottesche della storia), in un valzer di imbarazzi e moti animali, tentativi di resistenza e non più contenibili, profondissimi, mal camuffati raptus, comincia l’escalation delle contingenze, fino alla morte del corpo o dell’anima, senza sapere quale sia peggio. Dunque, il cerchio si chiude e in modo tremendamente doloroso (durevole, però, è lo scrosciare di applausi in conclusione), ma con una presa di coscienza epocale: in noi coesiste, senza soluzione di continuità, tutto ciò che abbiamo vissuto, tutto ciò che esperiamo e, forse, persino quello che non abbiamo ancora provato. Pertanto, anche solo una goccia di arsenico, soprattutto se assunta in tenera età, può contorcere una vita per l’intera sua durata. PhotocreditFabioLerario