Auditorium RAI “Arturo Toscanini” di Torino, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Robert Treviño
Soprano Justina Gringyte
Luciano Berio: “Folk Songs” (1973); Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n.4 in do minore, op.43
Torino, 13 marzo 2025.
1973 è la data dei Folk songs di Luciano Berio e nel 1961 Dmitrij Šostakovič, rimette insieme, ricostruendola dalle parti per orchestra, la sua Sinfonia n4 visto che la partitura originale manoscritta, del 1936, gli era stata persa. Le due opere risultano quindi non così lontane nel tempo e neppure nelle intenzioni. Ambedue trovano una ragione nel gesto musicale in sé, ovvero: nel suono per il suono. Berio fa un bouquet di canti popolari, mescolando strumenti e idiomi per un effetto complessivo magnificamente estetico che non racconta nulla, non esprime nulla, filtrato com’è da un egocentrico intellettualismo assolutamente né pop né folk. Questa bellezza in sé si rivelò essere, in allora, strettamente funzionale ad esaltare l’iperbolica vocalità di Cathy Berberian, dall’estensione formidabile, arricchita, in sovrappiù, da un funambolico virtuosismo. L’attacco delle due viole coi due violoncelli a seguire, nella prima canzone, non è che un preludio che sostiene il velluto vocale della mitica Cathy. Il bello che si giustifica col piacere del suono. È vano cercarvi altro. Il soprano lettone Justina Gringyte, moglie di Treviño, con voce, nelle note basse, assai poitrinée, ce la mette tutta per reggere il difficile confronto con il ricordo della grande Cathy e, fortunatamente, non soccombe. Robert Treviño l’accompagna con amorevole distacco, badando a curare al meglio il ricercato suono cameristico della splendida Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI che, seppur ripiegata su un volume ridotto, si espande in uno smagliante e variegato tripudio timbrico. Il pubblico, a ranghi ridottissimi, ha, questa volta con molta regione, applaudito cantante e orchestra. Forse è tempo che anche le sale da concerto si dotino di schermi per sottotitoli: si fornirebbero così, ad un pubblico non sempre avvertito, alcuni aiuti ad una maggior consapevolezza d’ascolto. Ad esempio, i testi di quanto viene cantato e la segnalazione dei punti cruciali dell’esecuzione, quali le indicazioni di tempo e di movimento, come la numerazione di eventuali variazioni, che il troppo
buio della sala impedisce di cogliere dalla lettura del programma. Nel nostro caso poi, i testi dei folk songs assenti e la prescrizione dello spartito che impone l’attacca subito senza pause, lasciavano il pubblico ignaro, senza alcun punto di riferimento. I burocrati staliniani, dando seguito ad una smorfia di disgusto dell’acciaioso despota nel corso della Lady Macbeth, si impegnarono con tutti i mezzi ad accusare il povero Dmitrij di “formalismo”, spaventandolo a morte e con lui ne sortirono terrorizzati anche gli esecutori della sua musica. Si era, a Leningrado, nel 1936 e le Prove della 4° sinfonia, ormai in corso, furono perentoriamente interrotte. Ci fu un fuggi-fuggi generale e qualcuno si adopererò per smarrire l’autografo della sinfonia. I burocrati, pur moralmente deprecabili, nella valutazione effettiva del lavoro ci avevano preso. Se per “formalismo” s’intende una musica che si esaurisce, seppur magnificamente, in sé stessa; una forma che non ha agganci con la realtà e col popolo, questa sinfonia ha effettivamente solo suono, puro ed assoluto. Per quanto in molti ci abbiano provato, nessuno è riuscito a costruirci sopra una trama e una drammaturgia coerente con quanto espongono le note e i suoni. Né in questo affanno c’è stato, da parte dell’autore, un pur minimo soccorso con scritti e con parole. L’opera si pone come un avventuroso universo sonoro che si evolve inesorabilmente su se stesso. Come dalla materia dispersa dal big-bang si agglomerarono, grazie alla gravità, diverse strutture singolari e misteriosamente interdipendenti, così, dal caos musicale europeo di fine Ottocento e dalla sua confusa ristrutturazione tonale, Šostakovič fa
coagulare i grumi della sua nuova costruzione. Bruckner, Strauss, Mahler, i musicisti della seconda scuola di Vienna, i russi suoi contemporanei e chissà quanti altri contribuirono a fornire spunti per il nuovo percorso iniziato da Šostakovič. Avrebbe potuto portare, senza lo stop imposto dal populismo di regime, a una strana e personale adesione all’opinione di Stravinskij che la musica si giustifichi solo con la musica e che questa si esprima solo con la strutturazione del suono. Se questo fosse stato l’intento, rimase congelato fino al 1961, quando però il mondo della musica e la realtà sovietica erano ormai definitivamente cambiate. La guerra, la vittoria, le stragi e, non ultime, le vicende personali avevano ormai, e con forza irresistibile, provveduto a soppiantare il “formalismo” e l’autosufficienza con contenuti e trame sempre più ineludibili. Il texano Treviño, esente da questi affanni tipicamente europei, gran maestro della bacchetta e provetto conduttore di masse orchestrali, può riallacciarsi all’impostazione originaria e, a tutta forza, riaffermare la primaria importanza di forma e suono. Si trapassa, con naturalezza e assoluto controllo, dai fortissimi assordanti che impegnano più di cento orchestrali, ai pianissimi, quasi inudibili, di consistenza cameristica. Il suono si mantiene sempre pieno e chiaro, i timbri con inesauribile cura vengono esaltati e sovraesposti. L’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, grazie a una flessibilità pronta e formidabile, si auto promuove come più strepitosamente non si potrebbe. Tutte le prime parti, ma pure le seconde e le terze (vedi ottoni e legni) sarebbero da citare singolarmente se non si scadesse, visto lo spazio, ad una sterile elencazione. Giustamente, a concerto concluso, Treviño associa, con una lunga sfilata di ringraziamenti, agli applausi a lui indirizzati, tutte le singole prime parti, le file e i ranghi. Si ripete venerdì 14 e si può trovare il live streaming video su raicultura.it.
I “Folk Songs” diretti da Robert Treviño per il centenario della nascita di Luciano Berio
