Roma, Museo della Fanteria: “Frida Kahlo: through the lens of Nickolas Muray”

Roma, Museo Storico della Fanteria
FRIDA KAHLO: THROUGH THE LENS OF NICKOLAS MURAY
Curatori: Touring Exhibitions Organization e Museo Frida Kahlo di Città del Messico
Mostra prodotta da: Next Exhibition e ONO arte contemporanea
Fotografo: Nickolas Muray
Roma, 15 marzo 2025
Ci sono volti che sembrano parlare, anche quando tacciono. Volti che conservano un silenzio pieno di storie, come una lettera mai spedita o una finestra socchiusa sul cortile interno di una casa messicana. Frida Kahlo aveva un volto così: severo e gentile al tempo stesso, fragile ma indomito, scavato da un dolore che sembrava riscriverle i lineamenti e allo stesso tempo illuminarli. Guardarla era un po’ come guardarsi dentro. C’è qualcosa di molto umano, di molto prossimo, in quel suo sguardo diritto e limpido, che pare sempre cercare qualcuno. Passeggiando tra le fotografie esposte nella mostra Frida Kahlo: through the lens of Nickolas Muray, si ha la sensazione di entrare in un tempo altro, fatto di colori caldi e ombre dolci, di risate smorzate e parole tenute in sospeso. La mostra, che si terrà a Roma, al Museo Storico della Fanteria, dal 15 marzo al 20 luglio 2025, raccoglie sessanta fotografie che raccontano il rapporto tra due persone che si sono volute bene. Prima che il mito di Frida si gonfiasse fino a diventare un’immagine onnipresente, c’era la donna. E davanti a quella donna, con una macchina fotografica tra le mani, c’era Nickolas Muray. Era arrivato a New York con pochi soldi in tasca e un sogno ostinato: diventare qualcuno. E forse non sapeva nemmeno bene cosa volesse dire “diventare qualcuno”. Nato in Ungheria, a Seghedino, nel 1892, Muray era un uomo di determinazione e passione. Lavorò come incisore, fu anche schermidore olimpionico, ma la sua strada era la fotografia. Sapeva guardare, prima ancora di saper scattare. E questa, credo, sia la qualità che fa la differenza. Ci sono persone che sanno vedere. Non solo guardare, ma vedere. E lui vide Frida, in un giorno del 1931, nella casa azzurra di Coyoacán, e non smise più di vederla, anche quando la loro storia d’amore finì. La storia fra loro cominciò piano, come accade con le cose che restano a lungo. Si conobbero grazie a un amico comune, Miguel Covarrubias, artista e intellettuale che li mise in contatto. Frida all’epoca era la giovane moglie di Diego Rivera, ancora poco conosciuta fuori dal Messico. Nick, che già collaborava con Harper’s Bazaar e Vanity Fair, vide qualcosa in lei che andava oltre l’apparenza. Una bellezza non convenzionale, certo, ma anche una forza che sembrava provenire da un altro tempo. Frida gli scrisse una lettera subito dopo il loro incontro, con parole dolcissime: “Nick, I love you like I would love an angel.” E in quelle parole si coglie una fame d’amore che commuove. Era una donna che aveva sofferto molto, eppure sapeva ancora desiderare con la semplicità di una ragazza. Nick e Frida si amarono per dieci anni. Si scrissero lettere, si cercarono tra Messico e Stati Uniti. Ma più che raccontare la cronaca di un amore, queste fotografie parlano della comprensione reciproca tra due persone che si sono accolte per quello che erano. Non c’è forzatura nelle immagini che Muray scattò a Frida tra il 1937 e il 1946. Sono fotografie piene di silenzio, di confidenza. Frida è vestita con i suoi abiti tradizionali tehuana, i capelli raccolti in corone fiorite, i gioielli pesanti di corallo e d’argento. È consapevole di essere osservata, ma non è intimidita. È come se dicesse: “Sì, questo sono io. Guarda pure.” E lui la guarda con rispetto, senza mai tradire l’intimità che la lega a lui. Muray fu un pioniere della fotografia a colori. In quegli anni, pochi si avventuravano nel campo del colore con la sicurezza che ebbe lui. Eppure, guardando queste fotografie, si capisce quanto il colore fosse necessario per raccontare Frida. I rossi accesi delle sue gonne, i verdi profondi dei muri alle sue spalle, il blu del cielo che si intravede dietro di lei—tutto parla di vita, nonostante il dolore. Frida aveva un rapporto intenso con il proprio corpo, che era stato segnato dall’incidente subito da ragazza e dalle continue operazioni. Eppure, sapeva ornarsi, trasformare la sofferenza in qualcosa di forte e bello. Nickolas Muray colse questo aspetto senza mai scivolare nel pietismo. Non c’è compassione nei suoi scatti. C’è ammirazione. Molte di queste fotografie sono oggi considerate iconiche. Rappresentano Frida Kahlo come la conosciamo: una figura che si staglia fiera contro fondali vibranti di colore, con uno sguardo serio e pieno di consapevolezza. Eppure, dietro quell’immagine diventata popolare, si avverte ancora una donna reale. Muray ci ha regalato un ritratto in cui l’intimità e la dignità si fondono. Guardando questi scatti, si ha la sensazione di avvicinarsi a Frida non come simbolo, ma come persona. Certo, Frida Kahlo era già un’artista consapevole del proprio potere iconico. Nei suoi autoritratti si mise in scena come un’araldica, cucendo nella sua immagine elementi della tradizione messicana, della sofferenza fisica e dell’identità femminile. Ma nelle fotografie di Muray c’è qualcosa di diverso. Non è lei a scegliere come mostrarsi: è lui a guardarla e a restituire quello che vede. Non c’è manipolazione, non c’è posa forzata. C’è una donna che si lascia vedere da un uomo che ha saputo amarla e rispettarla. Alla fine della mostra, si esce con una sensazione dolceamara. Le immagini sono ferme, non possono cambiare, eppure raccontano un tempo in cui tutto era in divenire. Frida Kahlo sarebbe diventata un’icona globale; Muray avrebbe continuato a fotografare altri volti, altre storie. Eppure, in quelle fotografie, si conserva un tempo sospeso, in cui due persone si sono trovate e riconosciute. A me piace pensare che le fotografie siano un modo per trattenere le persone, per dire loro: “Rimani ancora un po’”. Nickolas Muray, con la sua Leica e la sua Rolleiflex, ha fermato Frida Kahlo nel tempo, ma non l’ha mai imprigionata. Ha permesso che continuasse a guardarci, così come guardava lui. Con lo stesso sguardo diretto, fiero e umano.