Roma, Palazzo Merulana
sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi
gestito e valorizzato da CoopCulture
NELLE TUE MANI: GESTO, ARTE, MATERIA
mostra personale di Matteo Pugliese
Roma, 28 marzo 2025
Matteo Pugliese non inventa: dissotterra. Non costruisce visioni, ma interroga la materia, ne scava i silenzi, ne ascolta le resistenze. Nelle tue mani, la mostra che Palazzo Merulana dedica all’artista milanese dal 29 marzo al 6 luglio 2025, non è un’antologica come le altre, né si risolve in una semplice raccolta di opere: è un atto di fede nella scultura come linguaggio primo, come forma antica di teologia visiva. E non è un caso che la sede dell’esposizione, Palazzo Merulana, affacci proprio sulla via che unisce due basiliche giubilari, Santa Maria Maggiore e San Giovanni in Laterano. In questo tempo in cui tutto è effimero, fluido, senza peso, Pugliese restituisce alla forma la sua carne, e alla carne la sua sacralità. Il titolo della mostra, Nelle tue mani, non è un richiamo sentimentale ma una dichiarazione di poetica. È nelle mani che la vita prende forma. Mani che plasmano, che sostengono, che pregano, che tradiscono. Mani che parlano quando il corpo tace. L’opera che dà il titolo alla mostra – una grande installazione ispirata al Cenacolo di Leonardo – è di fatto una riscrittura radicale di uno dei fulcri iconografici della tradizione occidentale. Gli apostoli non sono rappresentati nei loro volti o nelle posture, ma unicamente attraverso le mani, scolpite in bronzo con tale tensione plastica da restituire l’intera gamma emotiva di quella frase che spezza la cena e la storia: “Uno di voi mi tradirà”. Cristo è al centro, le mani dei discepoli si alzano, si irrigidiscono, si contraggono. È un teatro muto, essenziale, e proprio per questo vertiginoso. Nessuna enfasi, nessun patetismo: solo il gesto, colto nel suo momento di massima verità. Pugliese non cerca la forma perfetta, né insegue l’armonia: egli dà corpo alla frattura.
La sua scultura non è decorazione, ma incisione. Non è bellezza, ma urgenza. E proprio per questo trova il suo posto naturale in un museo che custodisce la collezione Cerasi, tra le opere di Donghi, Casorati, Cambellotti: una galleria di sguardi che, pur differenti, condividono con Pugliese la volontà di riportare l’uomo al centro, non come idolo, ma come enigma. Il percorso si articola in quattro sezioni, ciascuna delle quali affronta una delle polarità dell’umano: lotta, protezione, rinascita, origine. La prima, Extra Moenia, è forse la più drammatica. Le figure, spezzate, sembrano emergere da pareti di roccia. Non sono intere, non sono eroi classici: sono corpi feriti, corpi che si dibattono contro il limite, contro la superficie. L’umanità che qui ci viene mostrata è priva di trionfo, ma non di dignità. Opere come E.V.A, dedicata alla violenza sulle donne, mostrano quanto la scultura possa ancora essere un linguaggio politico senza diventare ideologico. Qui la materia non illustra: denuncia. Ma lo fa con il pudore della grande arte.
La seconda sezione, I Custodi, è il contrappunto spirituale della prima. Qui le figure si ergono in piedi, verticali, ieratiche. Sono esseri senza tempo, presenze che sembrano emerse da un passato mitico, ma che ci guardano con occhi del presente. Pugliese scolpisce questi guardiani come fossero testimoni di un’umanità perduta. Il loro volto non racconta, ma custodisce. Non spiegano: proteggono. Sono statue che appartengono al territorio del sacro, ma senza riferimenti religiosi espliciti. È un sacro arcaico, tellurico, che ha la forza degli archetipi e la nudità delle cose autentiche. Con Scarabei si entra in un registro diverso, ma non meno profondo. Qui la forma si fa più minuta, più giocosa. Ma attenzione: sotto l’apparente leggerezza si nasconde un pensiero preciso.
Lo scarabeo, simbolo egizio di rinascita, diventa per Pugliese metafora dell’adolescenza, dell’innocenza perduta, ma anche del ciclo naturale delle cose. Ogni pezzo è cesellato con un gusto entomologico che ricorda certe tavole scientifiche ottocentesche, ma il rigore del dettaglio non soffoca mai l’invenzione poetica. Anzi, la esalta. Ogni scarabeo porta con sé un oggetto simbolico: un cuore, un libro, una chiave. È un bestiario intimo, una forma di autoritratto frammentato, nascosto nei recessi dell’infanzia. Infine, la sezione Pachamama, dedicata alla Madre Terra, segna il ritorno alle origini. Qui il legno di noce – materiale vivo, venato, respirante – diventa il veicolo di un’energia primigenia. Le sculture evocano la fertilità, la ciclicità, la generazione. Ma non si tratta di un ritorno romantico alla natura: Pugliese restituisce alla madre il suo volto ambiguo, potente, talora spaventoso. La Terra non accoglie soltanto: impone. Nutrimento e legge, carezza e abisso. Anche in questo, l’artista dimostra di non cedere mai alla semplificazione. Il mito, per lui, non è rifugio ma campo di battaglia. Chiude il percorso – e lo sospende – l’opera A Matter of Trust, posta in dialogo con L’uomo che dirige le stelle di Jan Fabre.
Due titani si fronteggiano: uno afferra l’universo, l’altro si abbandona al vuoto. L’uno è razionalità prometeica, l’altro è fede cieca. Ma il confronto non è un duello, è un’inquietudine. Il visitatore è chiamato a scegliere, o forse a non scegliere affatto. Perché il vero punto della mostra, in fondo, è questo: mostrarci che l’arte non consola, ma inquieta. Non rassicura, ma interroga. E quando lo fa con strumenti tanto antichi quanto veri – la forma, il corpo, la materia – allora riesce ancora a toccare il cuore del nostro tempo. Matteo Pugliese, in questo, è uno scultore fuori dal tempo. Non perché ignori il presente, ma perché lo attraversa senza farsene schiacciare. Le sue opere parlano all’uomo di oggi con il linguaggio dell’eternità: quello delle mani che tremano, dei corpi che resistono, delle forme che restano. E nel farlo, ci ricorda che, forse, è ancora possibile cercare nella bellezza una forma di verità. Non effimera, non retorica, ma essenziale. Come la creta che si lascia plasmare, solo per diventare altro. Solo per diventare, appunto, vita.