Roma, Spazio Diamante: “Al posto sbagliato”

Roma, Spazio Diamante
AL POSTO SBAGLIATO

Liberamente tratto dal libro omonimo di Bruno Palermo
direzione di produzione Lindo Nudo
aiuto regia Stefania Scola
responsabile tecnico Jacopo Andrea Caruso
direzione di produzione Lindo Nudo

aiuto regia Stefania Scola
organizzazione L’ALTRO TEATRO

produzione Teatro ROSSOSIMONA
Roma, 21 marzo 2025
“Ci si può opporre alla mafia semplicemente raccontando la verità”, disse Paolo Borsellino. Ma c’è una verità più scomoda e lacerante, che solo di rado trova chi abbia il coraggio di pronunciarla: quella che giace muta nei corpi fragili dei bambini, vittime incolpevoli di una violenza senza redenzione. Da questo silenzio, e dall’urgenza di restituire voce all’innocenza tradita, nasce Al posto sbagliato, la prova scenica di Francesco Pupa, andata in scena allo Spazio Diamante di Roma. Non un teatro di denuncia, né un resoconto di cronaca, ma un sacrificio laico che affida alla parola e al gesto l’impossibile compito di ridare volto, corpo e memoria a chi, per brutalità d’uomo, è stato consegnato all’oblio. Tratto dall’omonimo libro-inchiesta di Bruno Palermo, che raccoglie centotto storie di minori uccisi dalle mafie, lo spettacolo concentra la sua narrazione su dodici di queste esistenze spezzate. Dodici storie scelte non per una semplice rappresentazione, ma come testimonianza universale di una colpa collettiva. Pupa sceglie la via più difficile e onesta: la spoliazione scenica e la nudità espressiva. Rinuncia a ogni artificio per affidarsi al rigore della parola e alla verità del corpo. La scena è quasi vuota, ma non del tutto. A occuparla vi sono scatole di legno, disposte in maniera lineare o a incastro, che torreggiano come architetture precarie. Scatole che sembrano contenere qualcosa o forse nulla. Ricordano bare, archivi muti o stanze chiuse da cui nessuno può più uscire. Sono prigioni e tombe, ma anche costruzioni della memoria, blocchi impilati a ricordare la compartimentazione del dolore. Francesco Pupa si muove tra questi oggetti come un testimone che interroga se stesso e il pubblico. Al centro della scena, un’agenda rossa. Non è un caso che richiami quella di Paolo Borsellino, scomparsa misteriosamente dopo la strage di via D’Amelio. Nelle mani di Pupa, quell’agenda diventa il registro delle vittime innocenti, il libro muto delle verità negate. È da lì che escono i nomi, le date, le storie spezzate dei bambini assassinati dalle mafie. L’agenda si apre e si chiude come un libro sacro, scandendo il tempo del ricordo e della testimonianza civile. La regia delle luci è essenziale, precisa, sobria. Fasci stretti di luce bianca tagliano lo spazio, scolpendo il buio e isolando la figura dell’attore. La luce non accompagna, ma rivela. A tratti si spegne, lasciando il palco nell’ombra, quasi a suggerire che certe verità si colgano solo nel silenzio. Le luci dettano il ritmo del racconto con rigore ascetico, rafforzando l’asciuttezza di un’interpretazione che non concede nulla al sentimentalismo. Francesco Pupa è solo in scena. Come solo è l’uomo che si fa carico di una memoria scomoda. La sua recitazione è composta, asciutta, priva di retorica. Non interpreta i personaggi, li evoca. La voce si fa a tratti sommessa, a tratti tagliente, il corpo si muove senza mai cadere nell’imitazione o nell’enfasi. È un atto etico più che teatrale, in cui il pubblico è chiamato a essere partecipe, non spettatore. Pupa non cerca l’emozione immediata, ma costruisce una lenta e inesorabile presa di coscienza. Il dinamismo della scena nasce proprio dalla sua immobilità. Pupa si muove nella penombra, avvolto nel fumo di una sigaretta che apre lo spettacolo come un presagio. I suoi passi lenti tracciano un percorso nella memoria collettiva, evocando l’origine della mafia e restituendo la voce a quei bambini, i picciriddi, come li chiama con rispetto. Passa con naturalezza dal dialetto siciliano al napoletano, dal pugliese al calabrese. Ogni lingua segna l’appartenenza di quelle vite spezzate alle diverse mafie d’Italia: mafia, camorra, Sacra Corona Unita, ‘ndrangheta. Un atlante del dolore che diventa universale. Il racconto attraversa alcuni degli episodi più drammatici e simbolici della storia criminale italiana. La strage di Portella della Ginestra, primo patto tra politica e mafia nella storia repubblicana, si alterna al martirio di Nicholas Green, il bambino americano ucciso in Calabria, la cui morte ha portato alla donazione degli organi. Seguono l’omicidio di Dodò Gabriele, colpito mentre giocava a calcio, e la strage di Pizzolungo, dove una madre e i suoi due figli vennero uccisi per errore in un attentato contro il magistrato Carlo Palermo. Ci sono anche storie meno note, come quella dei quattro ragazzi gettati in un pozzo dopo aver derubato la madre di un boss. Gli oggetti scenici sono minimi ma carichi di significato: una coppola per il narratore di paese che racconta l’uccisione di una bambina, un fazzoletto rosso per il contadino che credeva in una Sicilia migliore e che invece vede morire il proprio figlio. Elementi essenziali che, con il gesto e la voce, costruiscono una polifonia di racconti intrecciati a canti popolari spezzati e struggenti. È un mondo arcaico quello che Pupa porta in scena, dove la comunità è devastata da una violenza che ha cancellato ogni residuo di umanità. Alla fine della rappresentazione cala un silenzio profondo. Un silenzio non imposto, ma conquistato. Poi, lentamente, il pubblico inizia ad applaudire. Prima piano, poi sempre più forte, fino a un applauso scrosciante, che è insieme liberazione e gratitudine. Non un’ovazione scontata, ma un tributo autentico, figlio di una partecipazione intensa e sofferta. Al posto sbagliato non è semplicemente un atto di accusa. È, soprattutto, un atto di verità. Un teatro che non si limita a rappresentare il reale, ma lo interroga e lo scava fino a restituirlo nella sua forma più pura e radicale. Uno spettacolo necessario, che si ascolta in silenzio e che continua a vivere ben oltre il tempo breve della rappresentazione.