Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA
di Natalia Ginzburg
Con Marianella Bargilli e Giampiero Ingrassia
e con Lucia Vasini, Claudia Donadoni, Viola Lucio
scenografie Fabiana Di Marco
costumi Pamela Aicardi
regia Emilio Russo
produzione Tieffe Teatro Milano, Compagnia Molière, Teatro Quirino
Roma, 25 marzo 2025
«Io ti ho sposato per allegria, tu invece no. Tu mi hai sposato per disperazione.»
Lo dice Giuliana, e mentre lo dice si capisce che non lo dice per ferire. Lo dice come si dicono le cose che si sono pensate troppo a lungo, e che prima o poi dovevano uscire. È una frase nuda, senza giri, e contiene già tutta la trama. Che poi, più che una trama, è un attraversamento. Perché Ti ho sposato per allegria non è una commedia con un intreccio, ma un confronto a due voci. Una commedia “da camera” dove il tempo scorre senza veri eventi, ma dove il teatro avviene in ogni silenzio, in ogni pausa, in ogni cambio di posizione sulla scena. Il Teatro Quirino ha ospitato questa nuova messinscena del testo di Natalia Ginzburg, prima delle sue undici commedie, con la regia di Emilio Russo. Una regia che ha avuto il merito – non scontato – di non voler attualizzare a forza, di non cercare aggiornamenti posticci. Il tempo resta quello della metà degli anni Sessanta, ma lo spettatore riconosce nei personaggi delle verità ancora vive: l’inadeguatezza, il bisogno di sentirsi accolti, la fatica a coniugare intimità e aspettative. Lo spazio scenico, firmato da Fabiana Di Marco, è costruito su una logica geometrica, minimale, quasi astratta. Una neutralità visiva che lascia il centro alla parola e al gesto. Ma a disturbare quella pulizia arriva una costellazione di manichini, presenze mute che aumentano man mano che i personaggi vengono evocati nel dialogo. La loro funzione è chiaramente simbolica, ma la loro efficacia è discutibile: troppo reali per essere evocativi, troppo statici per essere drammaturgicamente dinamici. Non sono figure metaforiche, né suggeriscono dimensioni interiori: sono segnali visivi che restano in superficie, come didascalie corporee.
Marianella Bargilli è Giuliana. Ne dà una lettura calibrata, trattenuta, che evita sia l’eccesso caricaturale della ragazza “spiritosa”, sia la deriva patetica della moglie frustrata. Giuliana è fragile ma non sciocca, irrequieta ma non confusa. È una donna che ha conosciuto la precarietà affettiva e che cerca, con tutti i mezzi a sua disposizione – la parlantina, il disordine, l’ironia – di costruire un angolo di pace. Ma Pietro non glielo permette del tutto. Giampiero Ingrassia, nel ruolo, restituisce con rigore il borghese trattenuto, educato, ma bloccato da un sistema valoriale ereditato e mai discusso. Il suo Pietro è un uomo che ama senza coraggio. Che accoglie, ma giudica. Che ascolta, ma non comprende. È l’antagonista perfetto non per ostilità, ma per distanza antropologica. Lucia Vasini interpreta la madre di Pietro, e lo fa con una misura che sorprende. Il personaggio, già fortemente scritto come presenza ingombrante anche quando non c’è, qui acquista una forza scenica che supera la parola. Quando entra in scena – perché qui non resta solo evocata, ma ha una vera e propria presenza fisica – lo fa con un’energia disarmante, che occupa lo spazio senza violenza, solo con la forza della gravità emotiva. Non ha bisogno di alzare la voce per far sentire il peso del giudizio. Il suo modo di parlare, la postura, la gestione dello spazio scenico, suggeriscono perfettamente quel tipo di autorità familiare che si insinua nella vita degli altri come fosse cosa propria.
Ed è un merito, non un eccesso: la Vasini riesce a dominare la scena senza mai rubarla. Alcuni personaggi minori, come la sorella e la serva, appaiono più come funzioni narrative che come figure sviluppate. Le loro scene – brevi, talvolta volutamente farsesche – sembrano a tratti eccedere nella gestualità, come se dovessero alleggerire la tensione drammatica centrale. Ma proprio in questo meccanismo si nota un piccolo squilibrio registico: la Ginzburg non ha bisogno di comicità d’appoggio, perché la sua è già una scrittura che contiene l’ironia nel cuore della malinconia. La partitura musicale è affidata a un pianoforte che compare in diversi momenti a sottolineare i cambi di quadro o le sospensioni. Ma il suo intervento non è sempre dosato: in alcuni passaggi il volume si fa invadente, interrompe più che accompagnare. In uno spettacolo fondato sulla misura e sulla sottrazione, il suono dovrebbe sapere come farsi da parte. E qui, invece, ogni tanto prende troppo spazio, arrivando a coprire la parola, che in Ginzburg è l’unico vero motore drammaturgico.
Anche il disegno luci, firmato da Lucio Diana, alterna soluzioni efficaci a scelte più didascaliche. Ci sono momenti in cui la luce sa suggerire, sfumare, accompagnare. Ma in altri casi sembra voler guidare lo spettatore con troppa insistenza, come se non si fidasse della scena. Alcuni tagli risultano fuori fuoco, o troppo letterali, e questo va un po’ in contrasto con la scrittura dell’autrice, che è tutta costruita sulla mezza tinta, sull’ambiguità, sulla sospensione. Eppure, lo spettacolo nel suo complesso funziona. Proprio perché non cerca l’effetto, non vuole sedurre. Accetta il rischio dell’apparente staticità, ma dentro a quella immobilità scava. E lo fa con una compagnia di interpreti che non cerca il protagonismo, ma il tono giusto. La Ginzburg scrive per una voce teatrale che somiglia a quella della vita vera: una voce che balbetta, che sbaglia i tempi, che lascia frasi a metà. E questa messinscena ha avuto l’intelligenza di non correggerla, di non renderla più teatrale di quanto già sia. Non si esce ridendo da Ti ho sposato per allegria. Si esce con la sensazione che certi dolori siano così comuni da diventare universali, e che stare insieme sia una costruzione quotidiana, fragile, imperfetta. Ma forse proprio per questo ancora possibile.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Ti ho sposato per allegria”
