Roma, Teatro Vascello
ERODIADE
di Giovanni Testori
Con Francesca Benedetti
Drammaturgia e regia di Marco Carniti
Video Artist Francesco Scandale
Musiche Originali David Barittoni
Aiuto regia Francesco Lonano
Produzione La Fabbrica dell’Attore
In collaborazione con l’Associazione Giovanni Testori
Roma, 26 Marzo 2025
Non è la scena, no; non è la platea che si accende e si consuma. È un vuoto che brucia. È un altare nudo, senza segni, senza ornamento. È lì che Francesca Benedetti appare, o forse si offre, o forse si sacrifica. Erodiade. Non quella dei libri, né quella dei Vangeli o delle iconografie smaltate d’oro e sangue che i secoli ci hanno lasciato a indurci pietà o orrore. È Erodiade la donna. La sposa, la madre scacciata, la regina che si disfa del diadema e resta carne, carne sola. E se ci si aspetta una scena, un luogo da abitare, si sbaglia. La Benedetti non abita: possiede, invade, squassa. Eppure non si muove. Sta seduta, sta eretta, sta dentro quella tunica rossa che è più carne che stoffa, più sangue che ornamento. Non c’è gesto che non sia voce, non c’è voce che non sia un fendente, un colpo, un graffio che pare affondare nelle fibre stanche dei nostri petti. Perché Erodiade la vediamo lì, ma siamo noi. È la nostra fame. È la fame di chi ha amato e non è stato ricambiato. Di chi ha teso le braccia verso l’amato e non ha ricevuto che la luce crudele del rifiuto. Francesca Benedetti è la parola, ma una parola che sanguina, che si schianta contro l’aria densa e immobile del Teatro Vascello. Lo spazio è una cella vuota. È il sepolcro di quel Giovanni che l’ha negata e che ora, decapitato, le offre un dialogo muto, una risposta che non arriverà mai. E lei, donna, madre, amante e regina, s’incarna in un monologo che è un salmo, un lamento, una bestemmia e una supplica.
Tutto insieme, tutto mischiato, come fa Dio, quando ci confonde. Marco Carniti la lascia fare. Non le costruisce attorno alcuna prigione. La scena è una croce o un trono, non importa. È il luogo dove Erodiade, ancor prima di parlare, già si è offerta. Non c’è altro che lei. E le immagini che scorrono, quei disegni febbrili della testa recisa del Battista, altro non sono che le visioni che le bucano la mente, che le squarciano la memoria. Francesco Scandale le fa fluire, quelle teste. Sono maschere, sono volti e sono il Vuoto. La nostra fame di vedere, dicevano i Greci, è sempre la fame di vedere il nulla. E Benedetti ci ciabatta addosso quel nulla come una veste sporca di sangue. E lei, Erodiade, cosa fa? Non supplica, non aspetta, non ottiene. Benedetti la fa decidere. La fa scegliere.
La fa desiderare con un dolore così ostinato, così vero, che è impossibile distogliere gli occhi. La sua voce scava, scava fino a far risalire quel lamento che sa di maternità e di stupro, di sacrificio e di gioia perduta. Ogni sillaba è pronunciata come si pronuncia una condanna a morte. E ogni pausa è un respiro negato. L’aria manca. Il pubblico, il pubblico rimane in apnea. Non applaude, non si agita. Rimane lì, serrato nelle poltrone rosse del Vascello, come bloccato da una mano che preme forte sul petto. Erodiade vorrebbe darsi la morte. Ma non può. Il coltello le viene strappato dalle mani. Ma il sangue esce lo stesso, e non si sa se è suo o se è nostro. È il miracolo del teatro che non imita ma rifà. Non rappresenta, ma produce. E Carniti, con Barittoni, con la Benedetti, lo sanno bene: questo non è uno spettacolo. È un’azione che ci strappa via i veli e ci lascia nudi davanti all’assenza di Dio. E poi? Poi, niente. La Benedetti resta lì, ancora, come una statua cui hanno sottratto l’anima, o forse cui hanno lasciato solo quella.
E allora, il pubblico, finalmente, si scioglie. Applaude, sì. Ma non è un applauso. È un ringhio. È un grido che viene da lontano. È un applauso che chiede pietà, non approvazione. Che chiede di essere sollevato da quell’abisso di desiderio e di perdita. Questa Erodiade, questa di Francesca Benedetti, non è un personaggio. È l’urlo antico di ogni madre, di ogni amante, di ogni creatura che chiede e non riceve. Che dà tutto e non ottiene nulla. E che, come dicevano i Greci, viene inchiodata a un fato più grande di lei. Ma lo fa in piedi, lo fa parlando. Lo fa con la voce che non smette mai di suonare, anche dopo che il sipario si chiude.
Roma, Teatro Vascello: “Erodiade”
