I FIGLI DELL’ISTANTE
Di Edoardo Albinati
Editore: Rizzoli
Data di Pubblicazione: 04/03/2025
Genere: Romanzo
Pagine: 696
ISBN cartaceo: 9788817174428
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Nel vuoto inquieto degli anni Ottanta, tra la fine delle ideologie e l’inizio dell’era-spettacolo, Albinati orchestra una sinfonia di vite disorientate. Nessuna trama salvifica, solo istanti che decidono chi siamo – o chi non siamo stati. “Nel mezzo del cammin” degli anni Ottanta, senza che nessuno ce lo dicesse, avevamo smesso di aspettarci qualcosa. Non era ancora l’epoca della rassegnazione elegante dei Novanta, né il tempo in cui si credeva che l’agire potesse trasformare il reale. Eravamo – non solo noi ragazzi, ma anche i padri, le madri, i professori – in una zona intermedia. Un limbo emotivo e sociale, dove non si faceva più la rivoluzione ma neppure si sorrideva convinti davanti alla telecamera. È lì che si colloca I figli dell’istante: tra ciò che si è estinto e ciò che ancora non ha imparato a parlare. In quel vuoto in cui tutto può accadere, ma quasi niente accade davvero. L’istante – come suggerisce il titolo – è una categoria dell’esistenza. Quello che separa il desiderio dall’azione, l’adolescenza dall’età adulta, l’empatia dall’indifferenza. Ma anche chi resta da chi scompare. Il romanzo non è costruito attorno a un plot, ma a una serie di fratture. Quelle crepe in cui cominci a chiederti: Dov’ero io, quando succedeva? E la risposta ti resta addosso come un odore che non va più via. Nico Quell parte per il militare. Potrebbe sembrare l’inizio di un romanzo di formazione, ma è un gesto di dissoluzione. Parte per sottrarsi, per non essere più responsabile nemmeno di se stesso. Ha dentro quella specie di abulia intelligente che è il tratto distintivo di molti figli degli anni Ottanta: capaci di desiderare tutto senza scegliere nulla. Nanni Zingone, invece, si carica sulle spalle una giovane famiglia, tre figlie, un lavoro da insegnante e velleità poetiche. È il ragazzo che ha scelto. Che ha fatto il passo. E che proprio per questo si consuma. Sono due facce della stessa generazione. Due versioni del fallimento. Attorno a loro, una moltitudine di figure si affaccia e si ritira. Come comparse in un sogno, ognuna lascia un segno, un’indicazione che non viene raccolta. Ci sono bambine che non vogliono più giocare, ragazze alla pari che si innamorano in silenzio, padri che non vogliono essere padri, madri che si aggrappano al ruolo con ferocia. E poi professori disillusi, terroristi sbiaditi, maghi da dopolavoro, vecchi che delirano e bambini che osservano. Non c’è un centro. Non c’è un asse. Ma c’è una circolazione inquieta, come di molecole in eccitazione perenne. Gli anni Ottanta, nel romanzo, non sono un contesto ma un sintomo. Non vengono descritti con nostalgia né con giudizio, ma con la precisione fredda di un entomologo. Sono gli anni delle pettinature gonfie e dei jeans slavati, ma anche dell’inerzia travestita da vitalismo, dell’egotismo moralmente presentabile. Un’epoca in cui l’individuo non si sente più parte di un disegno collettivo, ma non ha ancora trovato il linguaggio per dirsi solo. Tutti recitano la parte di chi sa cosa fare, ma nessuno si fida più del copione. Ogni gesto è un’improvvisazione. Ogni decisione, un azzardo. Ogni relazione, una zattera. Scrivere degli anni Ottanta significa raccontare la fine del tempo lungo, quello delle ideologie, dei grandi racconti. Al loro posto arrivano frammenti, deviazioni, derive. Il romanzo segue questa logica: niente trama, ma una deriva. Niente protagonista assoluto, ma una coralità stonata. E tuttavia, un ordine segreto si intuisce. Come se ogni scena sapesse dove deve andare, senza dirlo. Albinati scrive come chi scava: non cerca l’effetto, ma l’origine. Il suo linguaggio è complesso, stratificato, mai gratuito. C’è una necessità interna in ogni paragrafo. Un’urgenza. Un’ossessione. Le digressioni non distraggono: illuminano. Come lanterne accese là dove il sentiero si perde. Ci sono momenti in cui la narrazione si interrompe per riflettere sull’infanzia, sulla colpa, sull’educazione, sull’amore come possesso o come scomparsa. Ed è lì che il romanzo smette di essere racconto e diventa pensiero. Corpo vivo. Molti lettori chiederanno: Ma cosa succede, esattamente, nel libro? La verità è che non succede nulla che possa essere riassunto. Succede che si vive. Succede che si cambia. Succede che si muore. Succede che si guarda la propria vita e non la si riconosce più. E tutto questo accade, appunto, in un istante. Che non è mai solo quello che segna l’orologio, ma quello che lacera l’identità. Forse il romanzo più vero non è quello che costruisce una storia, ma quello che costruisce uno sguardo. I figli dell’istante è esattamente questo: un’educazione alla visione. Alla visione del dolore, della bellezza, della perdita. Alla visione di ciò che abbiamo preferito ignorare, per vigliaccheria, pigrizia o paura. È un libro che non giudica, ma interroga. Non consola, ma costringe. Un romanzo profondamente etico, anche se non moralista. Profondamente politico, anche se non parla di politica. Alla fine, restiamo lì, come Nico, come Nanni, come tutti gli altri. A chiederci se quell’istante fosse evitabile, se poteva andare diversamente, se siamo stati noi a causarlo oppure solo a subirlo. La risposta, sempre, è che non lo sapremo mai. Ma intanto qualcuno ha provato a raccontarlo. E questo, in un mondo che ha smesso di raccontare davvero, è già moltissimo.