Pompei, Parco Archeologico
ESSERE DONNA NELL’ANTICA POMPEI
Curata da Francesca Ghedini e Monica Salvadori
in collaborazione con le Università di Padova, Salerno e Verona
Pompei, 17 aprile 2025
A Pompei, città trafitta dalla cenere e rivelata dalla tomba del tempo, il concetto di “donna” non è un’astrazione, ma corpo inciso nel tufo, nome scolpito nella pietra, gesto colto in affreschi d’uso domestico o funerario. La mostra Essere donna nell’antica Pompei, allestita nella Palestra Grande sino al 31 gennaio 2026, si presenta come una potente operazione archeologica della mente, più ancora che una sequenza espositiva. Curata da Francesca Ghedini e Monica Salvadori, in collaborazione con le Università di Padova, Salerno e Verona, l’esposizione ha il merito di fondere la profondità documentaria con un impianto narrativo rigoroso, capace di far vibrare le corde della storia sociale, economica e simbolica dell’universo femminile. Non siamo dinanzi a una semplice galleria di oggetti: qui la materialità delle testimonianze antiche si fa veicolo di un’indagine che va ben oltre il dato, per raggiungere l’habitus culturale. E lo fa attraverso un impianto scientifico che si rifà, quasi metodologicamente, alla stratigrafia concettuale. Otto sezioni, come otto livelli da scendere — o risalire — per comprendere non “la donna”, ma le donne di Pompei, in una molteplicità di ruoli, origini e destini. Sin dall’ingresso, la scelta curatoriale è eloquente: i nomi e i volti, dunque l’individualità, prendono il centro della scena.
È una dichiarazione d’intenti: il femminile pompeiano non si vuole più indistinto, silenziato, archetipico. Si desidera invece nominarlo, conoscerlo per ciò che è stato nella sua forma concreta. La mostra si muove con passo fermo tra matrone di alta condizione e schiave senza diritti, tra liberte arricchite e prostitute coatte. E qui risiede il primo valore dell’esposizione: un approccio che non tematizza in astratto, ma campiona la realtà archeologica, dando conto tanto della norma quanto della devianza, del privilegio quanto della costrizione. I materiali esposti – affreschi, graffiti, oggetti d’uso, iscrizioni e monumenti funerari – sono ben selezionati e distribuiti secondo criteri che rispecchiano l’idea di una topografia sociale. L’archeologia, qui, fa ciò che sa fare meglio: disporre in ordine il caos, rendere visibile l’invisibile, far parlare i resti. E non è secondario che tutto ciò avvenga a Pompei, osservatorio unico al mondo per lo studio della vita quotidiana. Se altrove le donne antiche sono evanescenti, qui esse si impongono con forza: nei cubicula e nei thermopolia, nei corredi funerari e negli atti di mecenatismo urbano. Esemplare, in tal senso, la sezione dedicata alla vita pubblica e lavorativa: è qui che emerge il ruolo delle imprenditrici, delle mediche, delle venditrici, delle tessitrici.
Una Pompei femminile non solo vissuta, ma anche agente, capace di agire sul tessuto urbano, di riflettere una società più articolata di quanto i paradigmi tradizionali abbiano voluto ammettere. Spiccano figure come Eumachia, sacerdoressa e benefattrice, o Mamia, cui fu eretto un sepolcro d’onore sulla via dell’eternità. Non è un caso che siano proprio le tombe, nelle ultime sale, a chiudere il percorso con la solennità del commiato: la morte restituisce il nome, l’epitaffio, la memoria pubblica. Particolarmente suggestiva è l’integrazione con il sito archeologico e con l’app MyPompeii, che consente un’estensione “territoriale” del percorso espositivo. Questa visione iper-complessa della mostra – che è insieme spazio, tempo e tecnologia – rispecchia un’idea fortemente strutturale dell’archeologia. La donna antica, qui, si segue come un filo d’Arianna attraverso case, necropoli, edifici pubblici: Flavia Agatea, Asellina, Giulia Felice, Nevoleia Tyche e altre ancora diventano personae da incontrare nei luoghi in cui hanno vissuto, venduto, amato, comandato. Anche il telaio ricostruito nella Casa della Venere in Conchiglia assume così un valore simbolico profondo: è lo strumento del lavoro, ma anche della narrazione.
Le donne di Pompei tessono non solo stoffe, ma memorie; non solo vite quotidiane, ma immagini durature di sé. In ciò, il telaio si fa anche metafora del lavoro dell’archeologo, che riannoda fili spezzati, rammenda il tempo. A concludere, in una sorta di coda metacritica, la mostra offre uno spunto sul presente: dalle pioniere dell’archeologia come Carolina Bonaparte e Wilhelmina Jashemski, alla riflessione sulla rappresentazione femminile nel cinema. È questo il momento in cui il passato, finalmente restituito, può diventare specchio del presente. E forse anche modello, o ammonimento.
Essere donna nell’antica Pompei è una mostra che interroga la storia non per ritrarne un’immagine pacificata, ma per ascoltare le sue tensioni. Come direbbe Foucault, il potere si annida nei dettagli: ed è proprio nei dettagli che questa esposizione trova il suo centro, nei corpi che non avevano voce, nei nomi che rischiavano di svanire, nei ruoli che la storiografia tradizionale aveva marginalizzato. Pompei, con la sua capacità unica di trattenere il tempo, si conferma ancora una volta non solo palinsesto urbano, ma anche specchio dell’umanità. E l’archeologia – quella vera, scientifica, comparata, e tuttavia emozionante – è qui al suo meglio.
Pompei, Parco Archeologico: “Essere donna nell’antica Pompei”
