Roma, Case Romane del Celio
PATINA MEMORIAE
Mostra dell’artista Alessio Deli
curata da Romina Guidelli
promossa da CoopCulture
Roma, 19 aprile 2025
Una mostra di scultura contemporanea in un sito archeologico romano non è più una novità da qualche decennio. Di solito, si tratta di esperimenti discutibili, fondati sull’illusione che il contrasto basti a produrre significato. Nella maggior parte dei casi, si finisce con l’ottenere il contrario: opere fragili che si dissolvono nel contesto, o ambienti monumentali ridotti a cornice decorativa. L’incontro tra Alessio Deli e le Case Romane del Celio sfugge, per fortuna, a questa logica. Sino al 27 luglio 2025, tredici sculture dell’artista romano sono esposte nei percorsi sotterranei della basilica dei Santi Giovanni e Paolo, in uno dei luoghi più eloquenti della Roma invisibile. La mostra, dal titolo Patina Memoriae, è promossa da CoopCulture e curata da Romina Guidelli. Non ha nulla di celebrativo, e non è una raccolta di pretesti formali. È un confronto. Non per somiglianza, ma per resistenza. Deli è scultore di mestiere. Conosce il bronzo, il gesso, la creta. Non se ne serve per giocare con le superfici, ma per fare domande alla materia. Il suo è un linguaggio che viene da lontano, e che non teme l’eredità classica, perché non prova a emularla. Piuttosto, ne assume il peso. Quelle che espone sono figure lacerate, talvolta incomplete, mai illustrate. Il gesto è secco, anche quando sembra alludere a un pathos. È il gesto di chi ha imparato a sottrarre, non a comporre. Le opere, distribuite tra la Sala dei Geni e l’Antiquarium, non chiedono attenzione, né la impongono. Stanno. Hanno una presenza che non si misura in grandezza, ma in esattezza. E soprattutto: non cercano la bellezza. Il che, oggi, è già molto. Chi conosce le Case Romane del Celio — aperte al pubblico nel 2002, ma studiate da oltre un secolo — sa che si tratta di uno dei rari luoghi in cui l’archeologia e la stratificazione storica sono leggibili senza bisogno di mediazioni didattiche. Botteghe, domus, affreschi, tracce del passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Sono spazi dove il tempo si sedimenta, non si racconta. Ed è in questo silenzio che le sculture di Deli trovano senso. Scrive la curatrice che “il Mito, il Rito e la Storia convivono mentre si vestono di modernità”. È una formula suggestiva, ma che va ridotta al suo nocciolo: l’arte, oggi, ha bisogno di guardare indietro non per nostalgia, ma per orientarsi. Le opere di Deli non offrono una visione del passato. Offrono la prova che il passato può ancora misurare la tenuta del presente. Lo fanno senza clamore, senza effetti, senza sovrastrutture. E questa sobrietà — così rara — è forse il dato più rilevante della mostra. Nato a Marino nel 1981, Deli ha studiato a Carrara, poi a Roma. Ha insegnato, ha scolpito, ha viaggiato. Le sue opere sono state esposte in Europa, in Asia, in America. Ma la sua ricerca non si è mai allontanata da una tensione costante verso la forma come memoria del corpo e del tempo. Una memoria non celebrata, ma corrosa. Una memoria che ha perso ogni aura e che, proprio per questo, può ancora parlare. Il 20 giugno sarà presentato il catalogo, con testi della Guidelli e di Edoardo Marcenaro. Non è l’evento a contare, quanto il fatto che la mostra non ha bisogno di spiegazioni: basta guardare. E lasciarsi interrogare da quello che resta quando il superfluo è scomparso.
Roma, Case Romane del Celio: “Alessio Deli:Patina Memoriae”
