Roma, MAXXI
SOMETHING IN THE WATER
a cura di Oscar Tuazon con Elena Motisi (curatore associato)
STOP DRAWING
ideata da Pippo Ciorra per il Dipartimento Architettura diretto da Lorenza Baroncelli
Roma, 19 aprile 2025
“Là dove l’acqua si fa parola, e il disegno si dissolve, qualcosa accade nel cuore stesso dell’arte: non più rappresentazione, ma rivelazione.”
In un tempo in cui la materia cerca nuove vie per farsi pensiero, il MAXXI si fa doppio specchio di una crisi fertile. Due mostre – Something in the Water, a cura dell’artista Oscar Tuazon con Elena Motisi come curatore associato, e STOP DRAWING. Architettura oltre il disegno, ideata da Pippo Ciorra per il Dipartimento Architettura diretto da Lorenza Baroncelli – si aprono simultaneamente, ma non sono parallele: sono convergenti. Non raccontano, ma interrogano. Non illustrano, ma generano. L’una scorre come fiume, l’altra stratifica come palinsesto. Insieme tracciano una mappa mentale del nostro tempo, un cartogramma dell’instabilità. La prima ad accogliere è Something in the Water. Non si entra: si viene immersi. Oscar Tuazon, con la sensibilità politica di chi da anni lavora sul confine tra arte e attivismo, trasforma la galleria in un’estensione del suo progetto Water School. L’acqua, qui, non è tema ma soggetto. Non medium, ma struttura. È al contempo elemento naturale e costrutto giuridico, flusso e limite, diritto e memoria. Le opere non stanno, scorrono. Si aprono come piccole sorgenti: una di legno, una di vetro, una di acciaio. Ogni installazione è una cellula di un corpo fluido più grande. Ogni materia è soglia. La mostra non procede in senso lineare, ma per vibrazioni. È come attraversare un paesaggio mentale, fatto di strutture totemiche e vuoti accoglienti. Tuazon compone uno spartito di dialoghi silenziosi tra la sua opera e quelle di artisti che sembrano affiorare da una medesima sorgente: Matthew Barney, Nancy Holt, Torkwase Dyson, Lita Albuquerque, Saif Azzuz, Marjetica Potrč, Virginia Overton.
Alcuni lavorano per accumulo, altri per sottrazione. Ma tutti sembrano aver scelto di non “rappresentare” l’acqua, quanto piuttosto di “essere” acqua: cangianti, attraversabili, precari. In questa ecologia estetica, il corpo del visitatore non è più centrale, ma decentrato. Non osserva, ma partecipa. Camminando tra le installazioni, ci si rende conto che la vera opera è la distanza tra le cose. Il vero spazio è quello che si tende tra le forme. E l’acqua – invisibile ma costante – è ciò che tiene insieme tutto. Non a caso l’allestimento evoca il corso del Tevere, ma anche una scuola, un accampamento, un centro comunitario. È un museo che diventa infrastruttura. Tuazon lavora da anni sul concetto di spazio pubblico come forma d’arte. Ma qui va oltre. Interroga il concetto stesso di accesso: all’acqua, alla terra, alla visibilità. L’arte diventa strumento di attivazione. L’installazione, linguaggio relazionale. L’allestimento, grammatica del possibile. La materia industriale – cemento, ferro, vetro – si ibrida con il gesto fragile, umano. Si sente, in ogni dettaglio, il desiderio di costruire un luogo che non chiuda, ma apra. Un luogo dove il pensiero non sia proprietà, ma circolazione.
Pochi metri più in là, STOP DRAWING prende parola. Ma lo fa in modo obliquo. Qui non c’è nulla da fermare, in realtà. Il titolo è una provocazione, un punto di partenza per disinnescare il gesto che per secoli è stato l’origine stessa dell’architettura: il disegno. Ma oggi, sembra dire Pippo Ciorra, quel gesto si è moltiplicato. Si è fatto dato, algoritmo, video, performance. Il disegno non muore: si traveste. Non svanisce: si trasforma. La mostra è composta come un saggio visivo. Ogni sezione è una domanda. Ogni opera, una nota a piè di pagina. Gli architetti e gli artisti presenti non sono lì per essere celebrati, ma per contribuire a un discorso più ampio: cosa accade all’architettura quando il tratto non è più centrale? Quando la mano si ritrae? Quando il progetto si genera non da una linea, ma da una relazione, un tessuto, un suono? Le risposte sono plurali. Alcuni, come Aldo Rossi o Carlo Scarpa, riaffermano con forza la centralità del disegno come lingua originaria. Altri, come Superstudio o Frida Escobedo, lo decostruiscono fino a renderlo puro segno.
Altri ancora, come Atelier Bow Wow, propongono modalità immersive, partecipative, performative. E poi ci sono i lavori che partono dalla simulazione, dal collage, dalla tecnologia. E quelli che invece resistono, con ostinazione analogica, al digitale. La mostra non offre certezze. Non stabilisce una genealogia, ma suggerisce una mappa di traiettorie. È come se ci dicesse: non cercate l’essenza, cercate l’interferenza. Non più disegno come disegno, ma disegno come attitudine, come esercizio mentale, come forma di resistenza. In questa prospettiva, l’architettura diventa gesto politico, sociale, poetico. Non più oggetto, ma processo. Quello che accade al MAXXI, dunque, non è solo la presentazione di due mostre, ma l’attivazione di un campo di possibilità. Due gesti curatoriali che si rispondono senza scontrarsi. Due esplorazioni sul limite. Due inviti alla co-esistenza di forme nuove. C’è qualcosa di profondamente attuale in tutto questo: la volontà di pensare non per opposizione, ma per relazione.
Di non scegliere tra acqua e disegno, ma di riconoscere che entrambi parlano la lingua dell’instabilità, della metamorfosi, della transizione. E che forse solo in queste forme fluide, porose, sospese, possiamo ancora trovare un’arte e un’architettura capaci di dialogare col mondo. Come scrisse Paul Valéry: “L’acqua è piena di memoria, il disegno pieno di oblio”. Ma al MAXXI, oggi, i due si incontrano. E il loro abbraccio genera un pensiero che non vuole concludersi. Vuole solo continuare a scorrere. Photocredit Luis Do Rosario courtesy Fondazione MAXXI
Roma, MAXXI: “Something in the Water / Stop Drawing”
