Roma, Museo Carlo Bilotti, Arancieria di Villa Borghese: “Tra Mito e Sacro”

Roma, Museo Carlo Bilotti, Arancieria di Villa Borghese
TRA MITO E SACRO. OPERE DALLE COLLEZIONI CAPITOLINE DI ARTE CONTEMPORANEA
a cura di Antonia Rita Arconti, Claudio Crescentini e Ileana Pansino
Promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
con la collaborazione organizzativa di Zètema Progetto Cultura
Roma, 17 aprile 2025
«Nulla ci è più prossimo degli dèi, e nulla più incomprensibile.» (Euripide, Baccanti) Cosa accade quando il contemporaneo si volge al sacro? Quando l’arte, figlia del nostro tempo frantumato, si riveste delle forme eterne del mito? La mostra Tra Mito e Sacro. Opere dalle collezioni capitoline di arte contemporanea, in programma al Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese dal 17 aprile al 14 settembre 2025, offre una risposta non lineare, ma visionaria e stratificata. Promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con la collaborazione organizzativa di Zètema Progetto Cultura, l’esposizione è curata da Antonia Rita Arconti, Claudio Crescentini e Ileana Pansino. Un progetto che si inserisce nel calendario delle celebrazioni per l’Anno giubilare, ma che non si limita a un racconto religioso. Anzi, esplora le tensioni fra spiritualità, trascendenza e simbolismo attraverso i linguaggi molteplici dell’arte del XX e XXI secolo. Sono una trentina le opere selezionate, appartenenti alle collezioni della Galleria d’Arte Moderna, del Museo Carlo Bilotti, del Museo di Roma a Palazzo Braschi e della collezione d’arte contemporanea della Sovrintendenza. Si tratta di un mosaico disomogeneo per estetiche, materiali, media e intenzioni, ma che converge verso una medesima esigenza: sondare l’enigma del sacro nel tempo dell’immagine, tra reminiscenze archetipiche e slanci di assoluto. La mostra è un attraversamento. Non un itinerario rassicurante, ma un percorso iniziatico fatto di apparizioni, echi e simboli. Lo spettatore si trova immerso, sin da subito, nell’installazione di Alessandra Tesi, Cattedrale, che torna fruibile dopo oltre un decennio. Qui la sacralità si manifesta non come oggetto, ma come atmosfera. L’ambiente costruito dall’artista richiama le grandi navate delle chiese gotiche, senza imitarle: ne suggerisce il respiro, il tempo dilatato, la luce che cade come una benedizione muta. Si entra, si sosta, si contempla. In dialogo e in contrasto, Goldfinger Miss di Mario Ceroli propone una riflessione sul culto del corpo e della bellezza: una Venere dorata, moltiplicata in tasselli di legno, che fonde iconografia classica e ossessione moderna per l’idolo visivo. L’oro evoca il fondo delle icone bizantine, ma qui il sacro è scivolato nel glamour, nell’artificio, nella serialità consumata. È un altare laico, ambiguo, tra nostalgia e disincanto. Più intimo e vibrante è La cera di Roma di Alessandro Piangiamore: scultura realizzata con la cera raccolta dalle candele votive consumate nelle chiese della città. Non c’è rappresentazione qui, ma solo evocazione. L’opera è materia votiva, è il residuo tangibile di migliaia di preghiere. La cera fusa, rimodellata, si fa medium tra gesto devoto e forma artistica: un alchimia sottile tra fede e creazione. Con Leoncillo si entra nel registro tragico. Le sue opere, San Sebastiano e Taglio rosso, non raccontano la sofferenza: la incarnano. Le superfici tagliate, i colori laceranti, la materia ceramica che pare contorcersi e ferirsi restituiscono una sacralità ferina, viscerale. È un dolore che non cerca compassione, ma presenza. Come un ex voto crudo, eppure epico. Il volto sublime e astratto del Trascendente di Carlo Maria Mariani sembra appartenere a un’altra galassia spirituale: qui il sacro non si grida, si sussurra. L’angelo che fissa un altrove, le fiammelle simboliche, la geometria lieve del volto offrono un’immagine meditativa, quasi platonica, di ciò che è oltre il visibile. L’opera chiede silenzio, raccoglimento, esegesi. E poi l’ironia drammatica di Marc Quinn: il suo scheletro in preghiera, a grandezza naturale, è una provocazione che sfida lo spettatore. È questo il nostro destino? Un atto devoto compiuto da un corpo svuotato, un gesto che sopravvive alla carne? L’opera è potente perché spoglia il sacro della retorica e lo restituisce alla sua nuda essenza: il bisogno umano di invocare, anche nel nulla. Un capitolo a parte merita Sidival Fila, frate francescano e artista, che da anni lavora su materiali tessili di recupero: tele dismesse, stoffe, frammenti. La sua è un’estetica dell’essenziale, in cui ogni segno è traccia, ogni piega è memoria. Le sue opere non raffigurano: incarnano. Non illustrano: testimoniano. Sono reliquie laiche, sacre non per tema, ma per intenzione. Come in una liturgia antica, il tempo si fa materia, e la materia si fa spirito. L’intelligenza della mostra sta nel non cercare mai una definizione rigida del sacro. Non si tenta qui una teologia visiva, ma un’esplorazione libera e densa di simboli. Gli artisti convocati – e con loro i curatori – offrono suggestioni, aperture, feritoie sul mistero. In un mondo che tende a consumare ogni segno, questo progetto restituisce profondità al linguaggio e spessore all’esperienza. La mostra è un atto critico, ma anche poetico. È un atlante della spiritualità contemporanea, dove convivono dolore e leggerezza, ironia e incanto, materia e trascendenza. Il mito e il sacro – parole archetipiche – non sono né spiegati né storicizzati, ma evocati. Come in ogni vera esperienza estetica, il senso si genera nell’interstizio tra l’opera e lo sguardo, tra l’intenzione e l’eco. E forse, in questo dialogo interiore, risuona ancora una domanda antica: che cosa ci rende umani, se non la nostra capacità di credere – anche solo per un istante – in qualcosa che ci supera? Tra Mito e Sacro è allora più di una mostra: è un invito al raccoglimento, un esercizio di visione, un rito laico per riscoprire, attraverso l’arte, il senso profondo del nostro stare al mondo.