Roma, Galleria d’Arte Moderna
OMAGGIO A CARLO LEVI. L’AMICIZIA CON PIERO MARTINA E I SENTIERI DEL COLLEZIONISMO
collaborazione tra la Fondazione Carlo Levi di Roma e l’Archivio Piero Martina di Torino
Roma, 11 aprile 2025
Come il guizzo tremulo di una luce di tramonto che si rifrange su un volto antico, la pittura di Carlo Levi non si lascia catturare con la rete delle definizioni. Essa è, per usare un ossimoro leopardiano, una “serietà immaginosa”: pittura che crede al visibile come a un’urgenza civile, e al medesimo tempo lo trascende per suggerire le zone di silenzio che si celano sotto la superficie del reale. La mostra “Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo”, allestita alla Galleria d’Arte Moderna di Roma in occasione del cinquantenario della scomparsa dell’artista, non è soltanto un percorso antologico. È, nel suo disegno curatissimo, una partitura a due voci, un’“allegoria della relazione”, come l’avrebbe forse detta Warburg. In essa, il dialogo fra Levi e Piero Martina non si limita al registro biografico, ma si traduce in un tessuto pittorico complesso, fatto di assonanze timbriche, fughe tematiche, ritorni inattesi. Il primo movimento del percorso — La formazione — ci riconduce a quella Torino di fine anni Venti e Trenta che, più che una città, fu per i due una matrice spirituale. I toni ora densi, ora traslucidi dei quadri torinesi (si pensi al candore abbacinante del cappellino bianco in Lelle seduta, 1933) sono in Levi un “chiaroscuro morale”: mai esercizio accademico, piuttosto affondo psicologico. A contrasto, Martina par che voglia negare la sostanza pittorica: lo si osserva nei suoi interni quasi sussurrati, come Figura con maschera del ’38, dove la materia si fa vaporosa, inafferrabile — e proprio per questo carica di presenze.
Con la sezione Da Torino a Roma, la mostra si fa geografia emotiva e politica. La guerra incombe, e l’amicizia si rifugia nel colore, come nella doppia fisionomia speculare dei Ritratti reciproci del 1942. Eppure qui, nel momento del dolore e del nomadismo coatto (Levi è già segnato dall’esperienza lucana), si precisa il loro sguardo sul mondo. Levi piega la linea al peso della realtà: Autoritratto con fornello è una tela che ha lo stesso impasto della terra, e lo stesso silenzio. Martina, invece, comincia a sperimentare una pittura più costruita, come se cercasse nei solidi una difesa dal crollo. La Ragazza al clavicembalo è la trascrizione delicata di un’armonia perduta. Con la Roma del dopoguerra entriamo nella sezione più vibrante del percorso: La stagione dell’impegno civile. Qui, Levi diviene quello che già era nella sostanza: un pittore delle classi oppresse, ma non attraverso il grido, bensì la forma. Il ragazzo Aleandro e Contadine rivoluzionarie sono tele che rifuggono la retorica: non denunciano, esistono, come presenze che chiedono attenzione, mai pietà.
Martina risponde con le sue Tessitrici, con La manifattura tabacchi — e lo fa traducendo la fatica in colore, e la ripetizione in ritmo. Qui la pittura non illustra, evoca il lavoro come durata, come pulsazione. La sezione Il nudo e il paesaggio è forse quella dove il dialogo si fa più sfuggente. Martina sembra danzare con la luce, nelle sue vedute dove le figure quasi si disfano nel fogliame. Levi, al contrario, si appesantisce (ma non nel senso deteriore): il suo Alberi del 1964 è quasi una battaglia vegetale, un corpo a corpo con la natura, dove il pennello lotta per farsi spazio tra le pieghe della tela. Il suo paesaggio non è evasione, è materia che pensa. Chiude la mostra una sezione dal sapore privato, ma non per questo meno necessaria: Le opere di Carlo Levi nella Collezione De Lipsis Spallone. In queste tele inedite, selezionate con cura quasi da miniaturista dalla collezionista romana, si avverte una malinconia quieta, un’archeologia dell’anima. Dal Piccolo nudo del ’28 fino agli Amanti dell’ultimo periodo, è come se Levi tornasse su se stesso, ripetendo senza ripetersi: ogni nudo è anche un paesaggio, ogni albero un corpo, ogni volto un destino. La mostra, nel suo insieme, non costruisce un monumento, ma un organismo. Non esalta, ma riflette. E, nella riflessione, illumina. Non solo Carlo Levi, ma l’intera idea di un’arte come responsabilità del vedere. Un’arte che non fugge il mondo, ma lo ascolta — nella materia, nella luce, nell’amicizia.
Roma, Museo di Arte Contemporanea: “Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo”
