Roma, Palazzo del Quirinale
LA SALA REGIA NEL PERCORSO DELLA MOSTRA “BAROCCO GLOBALE”
In occasione della mostra “Barocco globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini”, il Palazzo del Quirinale offre un’occasione rara, quasi iniziatica: l’accesso eccezionale al Salone dei Corazzieri, già noto nei secoli passati anche come Sala Regia, nome che ne esplicita la destinazione originaria quale spazio di ricezione per sovrani, legati pontifici e ambasciatori. Questa apertura non è solo un gesto museale, ma un atto performativo: il luogo dove il potere si è rappresentato nei secoli viene riconsegnato allo sguardo pubblico, come se l’architettura si spogliasse, per un istante, della sua funzione istituzionale per diventare puro linguaggio. Costruita nei primi decenni del Seicento su impulso di Papa Paolo V Borghese e realizzata sotto la supervisione di Carlo Maderno, la sala è il massimo esempio della volontà pontificia di affermare, anche attraverso la materia, la centralità della Chiesa cattolica in un’epoca di espansione e competizione globale. Il Quirinale, da residenza estiva papale, si trasforma in dispositivo simbolico, e la Sala Regia — oggi Salone dei Corazzieri — è il fulcro di questa trasformazione. La sua monumentalità non è un fatto quantitativo, ma qualitativo: misura la distanza tra il reale e il rappresentato, tra l’individuo e il potere. Il soffitto ligneo a cassettoni, dorato, scolpito con ordine e maestosità, si specchia nel pavimento marmoreo a intarsio policromo, realizzando una simmetria visiva di forte intensità simbolica. Ogni superficie concorre alla costruzione di uno spazio scenico totale, dove l’individuo è messo in posizione di subalternità prospettica rispetto all’ambiente. Questo è lo spazio barocco: uno spazio che domina, persuade, ingloba. Alle pareti, due cicli decorativi raccontano due ideologie del potere. Il primo, risalente al 1616, è un fregio affrescato da una bottega guidata da Agostino Tassi, Giovanni Lanfranco e Carlo Saraceni. Vi si celebrano otto ambascerie ricevute da Paolo V, con una iconografia che si inserisce pienamente nel clima dell’espansionismo spirituale post-tridentino.
La più celebre è quella del giapponese Hasekura Tsunenaga, ritratto con dignità ieratica: è il corpo dell’altro che entra nella pittura romana e ne altera le coordinate. Questo incontro, che all’epoca suscitò stupore, oggi si rivela essere una delle prime raffigurazioni ufficiali di un dignitario nipponico nella storia dell’arte occidentale, anticipando — senza saperlo — la globalizzazione dell’immaginario barocco. Il secondo fregio, aggiunto dopo l’Unità d’Italia, è un intervento sabaudo che si inserisce senza distruggere l’impianto esistente: vi sono rappresentati gli stemmi delle principali città italiane, a suggello dell’unificazione politica della penisola. Un esempio perfetto di come l’arte possa essere palinsesto: la stratificazione dei poteri e delle loro estetiche si giustappone senza cancellazione, ma per sovrapposizione. È la permanenza della forma a garantire la continuità tra i regimi. Nel salone, convivono anche due cicli di arazzi settecenteschi, posti a rivestire le pareti con un fasto tutto francese e napoletano. La prima serie, di manifattura francese, raffigura le Storie di Psiche: un mito dell’amore e della trasfigurazione, ideale per un ambiente dove il potere si riveste di seduzione.
La seconda, dedicata a Don Chisciotte, combina ironia e pathos in un cortocircuito tra letteratura e arte decorativa, anch’essa frutto della cultura barocca che dissolve i confini tra alto e basso, sacro e profano. A vegliare silenziosa in una nicchia, la lunetta marmorea della Lavanda dei Piedi, scolpita da Taddeo Landini nel 1578 per la Basilica di San Pietro e traslata al Quirinale nel 1616, introduce una nota di etica cristiana dentro l’apparato del potere. È un gesto di servizio scolpito nel marmo, che diventa paradossalmente monumentale, eterno. L’umiltà come forma di autorappresentazione del potere pontificio, ma sempre attraverso il filtro dell’arte, che trasforma anche la pietà in stile. Nel Novecento, il Salone dei Corazzieri subisce un’eclisse di senso: pensato come pista da pattinaggio e persino adibito a campo da tennis coperto nel 1912, sembra per un momento svuotato del suo portato simbolico. Ma la forma resiste, come un’armatura. È solo nel secondo dopoguerra, e poi in modo definitivo con la Repubblica, che il salone riacquista la sua funzione di rappresentanza: diventa il luogo dove la nuova forma dello Stato — non più sacra, ma laica — continua la messa in scena del potere, ora sotto il segno della democrazia protocollare. Con la mostra “Barocco globale”, questo spazio non solo si apre, ma si riattiva. Torna a essere quello che era: un teatro dell’universale, un atlante visivo del dialogo tra Roma e il mondo. Ma non più solo luogo di autorappresentazione del potere: oggi il Salone dei Corazzieri diventa luogo di riflessione estetica e storica, nodo concettuale tra le culture che il Barocco ha saputo mettere in relazione. Una chance per toccare con lo sguardo la grammatica del potere, fatta di oro, marmo, mito e silenzio. Un’epifania barocca nel cuore stesso della Repubblica.
Roma, Palazzo del Quirinale: “La Sala Regia apre al pubblico”
