Roma, Sala Umberto: “I promessi suoceri”

Roma, Sala Umberto
I PROMESSI SUOCERI
Commedia di Paolo Caiazzo

Con  Maria Bolignano
e con in o.a. Antoni D’Avinio, Yulia Mayarchuk, Domenico Pinelli, Giovanna Sannino
Aiuto Regia Sofia Ardito
Costumi Federica Calabrese
Scenografie Max Comune
Disegno luci Luigi Rai
Foto e grafica Francesco Fiengo Studios
produzione Ag Spettacoli Tradizione e Turismo
Regia di Paolo Caiazzo
Roma, 14 aprile 2025

C’è una comicità che si limita a far ridere — e poi c’è quella che, nel riso, porta con sé un retrogusto dolente, un’eco delle inquietudini familiari, dei disastri domestici, delle ipocrisie gentili. I promessi suoceri di Paolo Caiazzo, andato in scena alla Sala Umberto, appartiene a questa seconda stirpe. È una commedia costruita con mano esperta, che si muove nel solco della tradizione napoletana — da Scarpetta a Taranto, passando per la televisione anni ’80 — ma con l’intento, quasi tenero, di risarcire i suoi personaggi da ciò che sono diventati: maschere stanche che recitano la parte di padri, madri, suoceri, senza aver fatto davvero i conti con la propria biografia. Antonio, ex animatore turistico che ha ripiegato nella mediocrità borghese, è una figura tragicamente comica: indossa i vestiti della farsa, ma la sua malinconia filtra in ogni battuta, come un vino che fermenta nel fondo del bicchiere. Paolo Caiazzo, che firma anche la regia, lo interpreta con misura e umanità: non lo schiaccia nella macchietta, lo tiene sospeso tra il riso e il rimorso. È un uomo che non ha perdonato il tempo, e che adesso, all’alba delle nozze della figlia, teme di essere accantonato come un mobile fuori moda. Ma non è forse questa la condizione eterna del padre, che vede la figlia andarsene e intuisce, senza dirlo, che non sarà mai più la stessa? Maria Bolignano è un’Elisa magistrale: materna, assertiva, corporea, con quel tono da matrona napoletana che, senza bisogno di urlare, governa la scena. La sua recitazione si appoggia sull’improvvisazione, ma dietro il ritmo comico si avverte una sapienza istintiva: è una donna che conosce il teatro della vita, e lo mette in scena con l’intelligenza di chi ha imparato tutto sul corpo — anche le sconfitte. Il cast che ruota attorno a questa coppia è ben calibrato. Yulia Mayarchuk, nei panni della soubrette dal passato misterioso, introduce un elemento di grottesco quasi felliniano. Il suo personaggio vive nel confine tra la caricatura e la nostalgia: è il residuo di un varietà in disarmo, ma non rinuncia alla propria dignità. Domenico Pinelli e Antonio D’Avino offrono interpretazioni solide, funzionali a quell’impasto di equivoci e rivelazioni che costituisce la colonna vertebrale della commedia. Giovanna Sannino, nel ruolo di Lucia, è il centro calmo dell’uragano familiare: giovane, semplice, affettuosa, appare come un personaggio minore, ma è su di lei che si costruisce — e si spezza — l’equilibrio dell’intero impianto drammaturgico. La regia di Caiazzo è abile nel far emergere le dinamiche relazionali, senza sovraccaricare la scena. Ogni gesto è al servizio della parola, e la parola è sempre pensata per essere capita. Non c’è ricerca del virtuosismo, ma un amore profondo per il pubblico. In questo senso, I promessi suoceri non è una pièce sperimentale, ma un lavoro d’artigianato teatrale onesto, colto nel suo citazionismo (Scarpetta, Molière, Manzoni) e moderno nel suo modo di riflettere su quanto la famiglia sia diventata un luogo di finzioni condivise più che di verità. Le scenografie di Max Comune sono tra i dettagli più riusciti dello spettacolo. Nulla di eclatante, ma una scena viva, domestica, piena di oggetti quotidiani che parlano da soli: una casa che si finge casa, con i tulipani in saldo e il copri water restituito al mittente. Una scenografia, dunque, non come contenitore neutro, ma come luogo affettivo e ironico, capace di raccontare da sé la precarietà dei protagonisti. I costumi di Federica Calabrese sono divertiti, colorati, volutamente eccessivi in alcuni casi, quasi a rimarcare l’oscillazione tra verosimiglianza e parodia. Ma è soprattutto il loro uso narrativo a colpire: abiti che “parlano” del personaggio, del suo desiderio di apparire meglio di ciò che è, della sua tensione verso un’idea di decoro che vacilla. Le luci disegnate da Luigi Rai accompagnano le svolte emotive con discrezione: calde, d’ambiente, rassicuranti, fino a quei pochi ma efficaci viraggi che sottolineano gli snodi drammatici. Non c’è ricerca di effetti, ma un gioco scenico che funziona proprio perché non distrae. Non manca la risata, e nemmeno la battuta volgare (ma mai gratuita). E tuttavia, al fondo di tutto, resta un senso di struggimento per ciò che non è stato, per le strade sbagliate, per gli amori giovanili mai compiuti, per il tempo che corre e che, come sempre, non aspetta nessuno. E allora la “divina provvidenza”, evocata a mo’ di parodia manzoniana, diventa un modo garbato di dire che alla fine il teatro, almeno lui, ci salva. Non perché cambia la realtà, ma perché — per due ore — ci fa credere che ogni conflitto possa risolversi in una risata. E questa, sì, è la più seria delle illusioni.