Roma, Sala Umberto: “Premiata Pasticceria Bellavista”

Roma, Sala Umberto
PREMIATA PASTICCERIA BELLAVISTA
una commedia di Vincenzo Salemme
compagnia Nest e Diana or.is
con Francesco Di Leva, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino
e con Stefano Miglio, Viviana Cangiano, Federica Carruba Toscano, Dolores Gianoli, Alessandra Mantice
scene Luigi Ferrigno

costumi Chiara Aversano
disegno luci Paco Summonte
sound designer Italo Buonsenso
coreografie Chiara Alborino
regia di Giuseppe Miale Di Mauro
Roma, 23 aprile 2025
C’è un momento, in Premiata Pasticceria Bellavista, messo in scena dalla Compagnia Nest con la regia di Giuseppe Miale Di Mauro, in cui la risata non ha più il suono pieno della spensieratezza, ma quello più ambiguo del grottesco. Si ride, sì, ma con la gola serrata, come se quel riso – e la sua ovazione istintiva – dovessero coprire un’improvvisa vertigine. È in quell’istante, rapido e fragile, che il teatro cessa di essere solo ripetizione e si fa azione critica: ed è lì che l’opera di Salemme, scritta negli anni ’90, si sottrae all’usura del tempo e rivendica, sorprendentemente, un’urgenza nuova. Ma giungervi non è un passaggio né immediato né del tutto limpido. La regia di Giuseppe Miale Di Mauro, infatti, pare affidarsi con eccessiva disinvoltura a una regola dell’accumulo, quasi temesse che il vuoto – quello fertile, quello necessario al respiro tragico – possa compromettere la ricezione. Così ogni gesto è un sottolineare, ogni movimento cerca la battuta, ogni linea del corpo vuole l’effetto. Ne risulta una comicità esibita, talora insistita, che finisce col distrarre piuttosto che suggerire. Una comicità, potremmo dire, accomodante e non inquieta, che teme la pausa e si rifugia nel ritmo più che nella tensione. Vi è, in questo meccanismo, una certa arrendevolezza – direi quasi una complicità – verso quella forma di intrattenimento che del teatro conserva l’involucro, ma ne tradisce la sostanza. La battuta arriva puntuale, ma è spesso priva di sottotesto; il ritmo è serrato, ma raramente scava. Ne consegue un registro che, a tratti, sfiora il varietà televisivo, laddove la scena dovrebbe invece restare luogo di scontro, di ferita, di esposizione dell’umano. Eppure – ed è qui la contraddizione, o forse il merito sottile – proprio in questa tensione fra leggerezza e gravità, fra riso e amarezza, tutto si salva. La drammaturgia di Salemme, con la sua architettura farsesca che si apre in fondo a uno spazio tragico, riesce comunque ad affiorare e pulsa sotto la superficie, come una corrente carsica, testimoniando una verità che resiste ai trucchi del mestiere. Determinante, in questo equilibrio precario, è l’apporto degli attori. Sono loro – con mestiere solido, misura sicura, istinto calibrato – a ricucire le fratture, a tenere insieme i piani che rischierebbero altrimenti di scollarsi. Il loro lavoro, lontano dall’istrionismo e dalla compiacenza, restituisce ai personaggi una dignità malinconica, una vita vissuta, un respiro. Ed è grazie a loro che lo spettacolo finisce col funzionare: non come meccanismo perfetto, ma come organismo vivo, imperfetto e dunque umano. Adriano Pantaleo lavora su una misura interna, fatta di esitazioni e ritardi, restituendo una presenza che rifugge l’affermazione. Viviana Cangiano spinge sul corpo e sulla parola, con energia densa che rischia il manierismo ma non vi cede. Pantaleo torna con una magnetica essenzialità: ogni frase incide, ogni silenzio è un risarcimento poetico. Francesco Di Leva sceglie un comico trattenuto, preciso, che osserva senza evadere. Giuseppe Gaudino, Stefano Miglio, Federica Carruba Toscano, Dolores Gianoli, Alessandra Mantice compongono una galleria di personaggi secondari, ma mai secondari nella costruzione del mondo scenico: tutti portano un dettaglio, un’incrinatura, un eccesso che contribuisce al tono generale dello spettacolo. Le luci di Paco Summonte non cercano effetti, ma atmosfere. Una luce diffusa accompagna le scene, salvo poi stringersi su momenti più lirici o ambigui. I costumi di Chiara Aversano evitano la citazione e lavorano su una riconoscibilità che tende all’archetipo. Il disegno sonoro di Italo Buonsenso si inserisce con efficacia, creando un controcanto ironico o sospeso. Il momento coreografico – il balletto su I Pagliacci di Capossela, firmato da Chiara Alborino – è l’unico istante davvero straniante, in cui la messa in scena si concede una digressione poetica che rompe la linearità del racconto. L’operazione, complessivamente, è chiara: non si vuole riscrivere Salemme, ma rileggerlo. Togliere polvere al testo, metterlo in ascolto con il presente. In questo, la Compagnia Nest conferma la propria capacità di mediazione tra cultura popolare e rigore teatrale. Si ride, ma in fondo alla risata resta il sospetto di non essere del tutto innocenti. Il pubblico, numeroso e partecipe, ha risposto con entusiasmo. Applausi convinti, ma non rituali. Forse perché ha sentito che sotto la glassa del comico si muoveva qualcosa di meno rassicurante. Qualcosa che riguarda tutti: l’istinto di chiudere gli occhi per non vedere ciò che ci disturba. Ma la scena, si sa, è lo spazio dove tutto – anche ciò che preferiremmo ignorare – si mostra. E in quella pasticceria dove si mescolano zucchero e rancore, amore e convenienza, non resta che constatare: la dolcezza è una copertura. Il sapore vero, spesso, è quello che resta in bocca quando la torta è finita. Photocredit Carmine Luino