Roma, Spazio Diamante: “Il bambino dalle orecchie grandi”

Roma, Spazio Diamante, Sala White
IL BAMBINO DALLE ORECCHIE GRANDI
scritto da Francesco Lagi
con Anna Bellato, Leonardo Maddalena

disegno luci Martin Emanuel Palma 
disegno suono Giuseppe D’Amato
scenografia Salgo Ingala
foto di Loris Zambelli
organizzazione Regina Piperno
produzione Teatrodilina Fondazione Teatro Toscana
regia Francesco Lagi
Roma, 04 aprile 2025
La cherofobia è la paura della felicità. Di quella felicità semplice, improvvisa, che arriva senza bussare e ci trova disarmati. È una forma di difesa, una crepa gentile che si apre nel cuore quando la luce rischia di ferire più del buio. È con questa vibrazione sottile che si apre Il bambino dalle orecchie grandi, scritto e diretto da Francesco Lagi, in scena al Teatro Spazio Diamante con la compagnia Teatrodilina. Nessun fragore, nessun gesto eclatante: solo due figure che si stagliano nella penombra, in piedi, immobili come in attesa di qualcosa che non arriva. I due attori si muovono con misura su un tappeto viola, calpestando il colore come fosse un campo di possibilità non dette. Indossano entrambi indumenti in cui si riflettono sfumature vinaccia, lavanda, prugna: tonalità fredde, trattenute, come la vita quando si osserva da lontano. E quando lui dice di mangiare solo cibi viola perché fanno bene alla salute, non si può non pensare alla delicatezza di chi cerca equilibrio nel dettaglio, di chi crede che il benessere possa nascere dal controllo minuzioso di ciò che si sceglie – anche a tavola. Una convinzione quasi comica, che però svela il bisogno di protezione, come un bambino che vuole evitare i dolori imparando la medicina del colore. È un gesto semplice, eppure carico di senso. Un gesto che, nel linguaggio teatrale, suona quasi stonato, ma che qui diventa chiave psicologica, cifra poetica. La scena non impone un tempo, non dichiara un luogo. Tutto è trattenuto, in bilico, come un respiro prima del pianto. Lo spazio creato da Salvo Ingala non descrive, suggerisce: una geografia interiore fatta di trasparenze, barattoli, superfici in plexiglass che riflettono e confondono, come sogni lasciati in disordine su un comodino. Nulla è esatto, nulla è chiuso: ogni oggetto sembra aspettare un significato che verrà altrove, in un altro tempo o forse mai. Le luci, curate con pudore e intelligenza da Martin Emanuel Palma, non raccontano ma evocano. Non illuminano, ma sfiorano. Sono malinconie che attraversano la scena, tremori dell’anima, pensieri che non trovano pace. Nessun effetto speciale, solo riflessi interni, umori d’ombra, piccole ferite luminose. I protagonisti – Anna Bellato e Leonardo Maddalena – incarnano una coppia in divenire, colta nel momento fragile della possibilità: lui racconta un sogno, lei ascolta, e in questo ascolto si apre lo spazio del teatro. Non si tratta di costruire personaggi pieni, ma figure poetiche, che si muovono in una zona liminare tra interpretazione e astrazione. Entrambi gli attori lavorano su un registro antinaturalistico, ma mai artefatto: la loro vocalità è sobria, spezzata talvolta da inflessioni lievi, accenni ironici, sospensioni; il gesto è controllato, prosciugato, ma preciso. Bellato modula con attenzione il peso delle parole, affidandosi più ai silenzi che alla battuta; Maddalena si muove con una fisicità trattenuta, come se il corpo volesse restare ai margini, quasi a non disturbare il tempo. La drammaturgia si compone per episodi, come un montaggio affettivo di istanti non ordinati: flashback, evocazioni, visioni. C’è il ricordo delle prese in giro infantili per le orecchie “a copertone”, ci sono le discussioni sui pasti, i piccoli scontri su dettagli domestici, le attese che diventano noia. Ma ciò che davvero tiene insieme lo spettacolo non è la linearità narrativa, bensì la ricorrenza di micro-temi e motivi poetici: le orecchie, appunto, simbolo di ascolto e di vulnerabilità; la marmellata, la pianta che non cresce, l’insofferenza verso “certe cose dell’altro”. Il tutto organizzato secondo una struttura circolare, musicale, fatta di ritorni e dissonanze. Il punto di forza della regia di Lagi è la coerenza con il proprio sguardo poetico: mai compiaciuto, mai esibito. Il tempo scenico è dilatato, quasi cinematografico, ma sempre al servizio della materia emotiva. La recitazione non cerca l’identificazione ma l’empatia diffusa: lo spettatore non è chiamato a “credere” alla storia, ma a riconoscervi frammenti della propria biografia affettiva. E in questo, lo spettacolo riesce con finezza: non imponendo una morale o una parabola, ma lasciando spazio al dubbio, al “forse”, al “e se…”. Il bambino dalle orecchie grandi non parla di una grande passione, né di una crisi devastante: mette in scena il tessuto granulare della vita condivisa, le sue increspature sottili, le sue dolcezze interrotte. È un teatro che si nutre di micro-tensioni, di variazioni impercettibili nel ritmo e nell’intonazione. La scrittura di Lagi – a metà tra poesia quotidiana e drammaturgia della sospensione – riesce a restituire quella dimensione sfuggente in cui l’amore non è più sentimento, ma gesto reiterato, dettaglio osservato mille volte, distanza che resta nonostante la vicinanza. La coppia – pur senza nome, pur senza storia definita – si trasforma così in una figura universale, una sorta di archetipo lieve dell’innamoramento che si fa convivenza, del desiderio che si misura con la disillusione. Il bambino evocato nel titolo non è solo un progetto, una possibilità o un sogno: è anche – forse soprattutto – la parte fragile e non risolta che ciascuno porta con sé, quella che si spera venga accolta, compresa, ascoltata. Ecco allora che il teatro, in questo caso, non mostra, ma custodisce. Non urla, ma veglia. E nel silenzio che chiude la pièce – un silenzio pieno, denso, come una stanza vuota dopo una conversazione troppo lunga – resta il ricordo di qualcosa che non è accaduto davvero, ma che ci riguarda profondamente. Perché in fondo, tutti abbiamo avuto, almeno una volta, delle orecchie troppo grandi. E qualcuno che ce le ha fatte amare.