Roma, Teatro Argentina
HO PAURA TORERO
di Pedro Lemebel
traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi
trasposizione teatrale Alejando Tantanian
regia Claudio Longhi
dramaturgia Lino Guanciale
con Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame, Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
visual design Riccardo Frati
travestimenti musicali a cura di Davide Fasulo
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Roma, 03 aprile 2025
Ci sono spettacoli che chiedono allo spettatore di lasciare fuori dalla sala i propri strumenti di difesa, altri che invece li chiamano in causa, li interrogano, li costringono a farsi domande. Ho paura torero, portato in scena da Claudio Longhi al Teatro Argentina, riesce in un compito più sottile e forse ancora più teatrale: ci invita ad abitare un tempo sospeso – personale e collettivo – in cui il privato diventa politico e la tenerezza si fa atto di resistenza. Non c’è spettacolarizzazione, non c’è enfasi: c’è piuttosto un passo lento, poetico, meticoloso, che apre varchi, svela pieghe, suggerisce connessioni. L’adattamento scenico dell’unico romanzo di Pedro Lemebel, curato con sensibilità e rispetto da Alejandro Tantanian, affronta un tessuto drammaturgico denso e stratificato, dove l’intimità si scontra con la storia, e dove la marginalità – sociale, affettiva, sessuale – trova finalmente un centro. Non un centro estetico o ideologico, ma umano. Quello che pulsa nei gesti piccoli, negli sguardi mancati, nei sogni che si ostinano a sopravvivere anche tra i sacchi della clandestinità e le onde libere della radio ribelle. Il testo conserva l’andamento barocco, lirico e popolare del romanzo originale, ma lo piega alla grammatica della scena senza sacrificarne l’autenticità.
Siamo a Santiago del Cile, nel 1986. Il regime di Pinochet scricchiola ma ancora fa paura. E in mezzo a una città sorvegliata e spietata, piena di occhi e informatori, vive la Fata dell’angolo, una “vecchia frocia persa” che si sente donna, artista, ricamatrice. Lei non milita, non protesta, ma ama. Ama Carlos, un giovane studente che dice di appartenere al Fronte patriottico Manuel Rodrìguez. Lo accoglie nella sua casa, lo ascolta, lo accudisce. Ricama per lui, sistema i suoi cuscini, canta canzoni malinconiche. Le casse misteriose che Carlos porta con sé, la Fata le adorna con merletti. Non vuole sapere cosa contengano. Le basta poter dire: “Mi fai stare bene“. Al cuore del racconto – e al centro del palco – c’è proprio lei, la Fata, interpretata da un Lino Guanciale che sorprende per delicatezza e rigore. La sua è una performance che rifugge ogni caricatura per abbracciare la profondità di una figura che esiste nell’interstizio tra identità e maschera, tra affetto e abbandono.
La Fata è un corpo politico, ma non per militanza: per amore. Carlos, interpretato con misurata intensità da Francesco Centorame, è figura ambigua e sfuggente, oggetto di un sentimento che non potrà mai ricambiare del tutto. Ma in questa asimmetria si annida la forza drammatica del racconto. E’ un amore struggente e un po’ sonnambulo, disseminato di picnic improvvisati a Cajón del Maipo e feste di compleanno con torte colorate per i bambini curiosi del quartiere. Ma è anche un amore a senso unico, e perciò tenerissimo. La Fata cerca un “ti amo“, riceve un “ti voglio bene“. E lei lo sa che non è lo stesso. Ma resiste. La regia di Longhi orchestra tutto con mano ferma e consapevole. Non impone significati ma costruisce una condizione drammatica, una tensione costante tra desiderio e storia. Il ritmo è calibrato, a tratti contemplativo, ma mai statico. Le luci di Max Mugnai e i video di Riccardo Frati intervengono con misura, contribuendo a un’ambientazione visiva che richiama tanto la malinconia della memoria quanto l’elettricità di un’epoca sull’orlo del cambiamento.
La musica – rielaborata da Davide Fasulo – alterna motivi latinoamericani a inserti pop colti con intelligenza, diventando voce narrante e paesaggio emotivo. Mario Pirrello e Sara Putignano, nei ruoli grotteschi e disturbanti di Pinochet e di sua moglie, incarnano il potere come parodia dell’umano. La loro presenza, collocata spesso su un livello superiore della scena, crea una dicotomia visiva e simbolica: da una parte l’alto, inaccessibile e violento; dall’altra il basso, vissuto e vulnerabile. La comicità surreale con cui sono trattati i dittatori non ne svuota l’orrore, ma lo espone nella sua disumanità farsesca. Il coro, composto da Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea e Giulia Trivero, agisce come un organismo fluido: ora è popolo, ora è memoria, ora è coscienza collettiva. Si muove con precisione, dando voce a quelle figure dimenticate che costituiscono la carne viva del romanzo e dello spettacolo. Non sono comparse: sono testimonianze incarnate, presenze vive, esistenze minute che si fanno racconto. Uno dei momenti più toccanti è l’irruzione finale dei manifestanti in sala: un gesto scenico che rompe la convenzione e trasforma la platea in agorà, in spazio condiviso.
Sul fondale scorrono i volti dei desaparecidos, e la voce della Fata si fa canto di addio. “Ho paura torero“, dice, e nel dirlo non cede alla paura, ma la attraversa. È una parola d’ordine, certo, ma anche una confessione. Un’affermazione di vulnerabilità che si fa forza. C’è molto affetto in questo spettacolo. Un affetto verso il teatro come luogo di comprensione, verso il testo di Lemebel, trattato con rispetto e profondità, verso i personaggi, che vengono custoditi e non esibiti. Ma c’è anche una chiarezza etica: la chiarezza di chi non cerca il consenso facile, ma propone un’esperienza complessa, stratificata, necessaria. E così, nella penombra di un amore mai del tutto corrisposto e nell’eco di una rivoluzione che non trova compimento, resta impressa un’immagine fragile e potente: quella di una Fata che ricama tovaglie, canta boleri, ama senza garanzie, e sceglie di rischiare tutto per un’illusione. In quella figura precaria, marginale, ridicola e sublime, c’è forse la più potente allegoria del nostro tempo: un’umanità che non smette di desiderare, anche quando tutto intorno sembra suggerire il contrario. Da non perdere. Foto © Masiar Pasquali / Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa