Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Moby Dick”

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
MOBY DICK

di Herman Melville
Regia: Guglielmo Ferro
Adattamento drammaturgico: Micaela Miano
Con: Moni Ovadia , Giulio Corso 
e con Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi,
Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese, Marco Delle Fratte
Scene Fabiana Di Marco
Costumi Alessandra Benaduce
Musiche Massimiliano Pace
Movimenti scenici Monica Codena
Light designer Pietro Sperduti
Produzione Compagnia Molière – Centro Teatrale Bresciano – Teatro QuirinoRoma, 01 aprile 2025
È un mare senza coordinate quello in cui ci si trova proiettati entrando in sala al Teatro Quirino, dove Moby Dick di Herman Melville prende forma scenica nella regia di Guglielmo Ferro. Il palco si trasforma sin da subito in un luogo di sospensione, tra sacro e profano, memoria e incubo: la nave Pequod non è soltanto il vascello della celebre baleniera, ma un’immagine potente del destino umano, una zattera tragica lanciata verso l’abisso. Lo spettacolo, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano, dal Teatro Quirino e dalla Compagnia Molière, si avvale dell’adattamento drammaturgico di Micaela Miano, che sceglie un impianto evocativo e frammentato, capace di restituire la tensione epica e metafisica del romanzo senza cadere nella mera riduzione narrativa. L’intento è chiaro: evocare, più che raccontare; suggestionare, più che spiegare. Eppure, nel cuore di questo mare agitato, le interpretazioni principali sembrano più naufraghi che nocchieri, travolte dal flusso scenico anziché capaci di governarlo. Moni Ovadia, chiamato a incarnare il terribile Achab, appare smarrito nella parte, come un comandante che ha perso la bussola e parla non alla sua ciurma, ma al vuoto. Il suo dire, più che profetico, suona svuotato: la voce che dovrebbe essere tuono diventa eco, e la fiamma dell’ossessione si riduce a brace spenta. Achab, che è fuoco divorante, diventa qui figura scolorita, incerta tra la declamazione rituale e l’inerzia. Il gesto non affonda, resta sulla superficie del personaggio come una fiocina lanciata con mano esitante: non colpisce il cuore della balena, né quello dello spettatore. La verticalità del personaggio, il suo titanismo tragico, si dissolve in una recitazione spenta, monotona, distante. Giulio Corso, nel ruolo di Starbuck, segue un destino simile, ma con esiti ancora più incerti: ufficiale di bordo senza rotta, pare inseguire le proprie battute più che abitarle. La sua recitazione soffre di una dizione alle volte imbarazzante, frammentata, priva di articolazione emotiva e spesso incapace di restituire al testo dignità drammatica. Le sue entrate sono sperdute, scanzonate, svincolate da qualsiasi logica scenica, come se venisse da un altro spettacolo o da un’altra epoca, con un fare leggero che stride con la gravità del personaggio e della situazione. Il corpo non ha tensione, la parola non ha necessità. L’accento è sradicato, fluttuante come zattera alla deriva, e il respiro teatrale irregolare, incapace di scandire i tempi interni della scena. Starbuck è la coscienza, il dubbio, il fragile argine alla follia del capitano: qui invece si riduce a figura secondaria, priva di mordente, il cui apporto resta più evocato che agito. Il confronto tra i due personaggi, che dovrebbe essere il cuore etico dello spettacolo, si scioglie come nebbia marina, senza tensione, senza reale urto. E così il dramma perde consistenza, il duello morale si affloscia, la tempesta si fa bonaccia. La resa fonica dello spettacolo risulta deludente: le voci degli attori, prive di armonici e profondità, si appiattiscono in sala fino a diventare un’eco lontana, spezzando la forza della parola scenica. Il suono non avvolge, ma si disperde, svuotando il teatro della sua vitalità. Un’occasione sprecata, soprattutto per un testo così ricco di abissi e risonanze. Peccato, davvero peccato: perché questa poteva essere un’occasione perfetta, l’occasione per far detonare sulla scena due archetipi tragici, e invece restano due sagome sfuocate, perse tra le onde. La regia di Guglielmo Ferro si muove in una dimensione astratta, dove il realismo è del tutto assente. La nave non è mai nave, ma spazio mentale. I suoni – tra percussioni, canti rituali e rumori naturali – amplificano la tensione, trasformando l’azione scenica in un viaggio iniziatico. Ma anche la regia, in alcuni passaggi, pare non del tutto a fuoco: il ritmo si spezza, la coralità si impasta, alcune scene sembrano più tappe decorative che stazioni drammatiche. Vi è una coerenza visiva, ma non sempre un senso teatrale nel montaggio delle immagini. A reggere lo spettacolo sono invece gli attori di contorno, capaci di creare una tessitura solida e coesa. La ciurma del Pequod – composta da Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi, Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese e Marco Delle Fratte – agisce come un corpo unico, più simbolico che individuale. I personaggi sono voci e ombre di un’umanità molteplice, immersa nella tempesta. I loro gesti e i loro canti, spesso di matrice rituale, rinviano a un teatro arcaico, comunitario, dove la coralità è specchio dell’anima collettiva. Particolarmente azzeccata, almeno in apparenza, la scelta di non mostrare mai la balena: Moby Dick resta presenza assente, evocazione, spettro. È ciò che si insegue e non si vede, ciò che sfugge alla presa ma non al pensiero. E proprio per questo, la sua ombra si estende su tutto lo spettacolo: simbolo dell’inconoscibile, dell’incommensurabile, dell’umano che, tentando di possedere, finisce col perdersi. L’allestimento prova a farsi riflessione sull’ossessione del potere, sull’antropocentrismo e sulla frattura tra uomo e natura. L’intento è nobile, il risultato – com’è accaduto a più di un vascello teatrale – si arena prima della meta. Alla fine, mentre la nave affonda, Achab perisce nella sua hybris e Ismaele resta solo a raccontare, la sala si risveglia in un applauso incerto, più cortese che convinto, come chi torna da una lunga navigazione con la sensazione di aver smarrito la mappa. Non c’è entusiasmo, ma una forma di rispetto sobrio, di quelli riservati alle imprese fallite con eleganza. Del resto, l’ambiziosa e visionaria regia di Guglielmo Ferro sfiora il mito ma non lo trafigge: la fiocina cade e la balena, ancora una volta, svanisce all’orizzonte, lasciando la scena in un silenzio inquieto.