Roma, Teatro Vittoria: “Streghe da marciapiede”

Roma, Teatro Vittoria
STREGHE DA MARCIAPIEDE
di Francesco Silvestri
uno spettacolo di Stefano Amatucci
con Gina Amarante, Luisa Amatucci, Miriam Candurro, Antonella Prisco, Peppe Romano
costumi Teresa Acone
scena Ciro Lima Inglese
musiche Valerio Virzo
disegno luci Tommaso Vitiello
assistente alla regia Francesco Effuso
organizzazione Tiziana Beato
grafica e visual marketing Michele Fierro
produzione LAB 48
Roma, 15 aprile 2025
«Nella casa dei vivi, a volte, entra un’ombra che nessuno ha chiamato. Ma che tutti, in fondo, stavano aspettando.» (Appunto anonimo su un diario processuale immaginario, Napoli, 1923)
Non servono candele, scope o pentacoli. Le streghe di questa storia non vengono dalla fiaba, ma da un’umanità scorticata, refrattaria al riscatto. Abitano stanze con l’intonaco stanco, fanno i conti con le ossa, con l’eco di un passato che ancora batte nei muri. Streghe da marciapiede, in scena al Teatro Vittoria per la regia di Stefano Amatucci, è un teatro che non fa sconti: né alla bellezza, né alla colpa, né alla memoria. È un rito processuale dove le parole si fanno prove e le emozioni diventano sentenze. Francesco Silvestri, autore scomparso troppo presto, costruiva drammi come si costruisce un castello su sabbia asciutta: fragili, eppure resistenti al tempo. Questo testo – tra i più amari e articolati della sua produzione – mette in scena quattro donne, quattro prostitute, e un’assenza. Un giovane irrompe nella loro casa, forse angelo, forse specchio, forse enigma. È bello, sfuggente, fuori posto. Un errore d’arredamento in una vita già troppo ingombra. E come tutti gli errori troppo puri, finisce male. Ma la regia fa qualcosa di più: quel giovane non lo vediamo mai. Non c’è corpo, non c’è voce. Solo evocazioni, descrizioni, reazioni. Sta tutto nel racconto che le donne ne fanno: lo uccidono col linguaggio, lo consumano con la memoria, lo ricostruiscono con la stessa materia con cui si fanno le leggende e le colpe. E già qui il teatro diventa altro: uno spazio mentale, una scatola cranica piena di ombre che non si riescono a scacciare. Le quattro interpreti – Luisa Amatucci (Alba), Miriam Candurro (Tuna), Antonella Prisco (Gina), Gina Amarante (Morena) – sono perfette nel non essere mai perfette. Portano in scena il non detto, il rimorso quotidiano, l’ironia che sfocia nella ferocia. Ognuna ha la propria ferita: la maternità sepolta, l’educazione che soffoca, l’intelletto che illude, il trauma che bussa alla porta ogni notte. Ma non si tratta di spiegare i personaggi. Si tratta di guardarli negli occhi mentre provano a salvarsi – e falliscono. L’ispettore – introdotto in questa nuova versione e interpretato da Peppe Romano – è il tentativo della giustizia di entrare in un mondo dove non ci sono scale per misurare il bene e il male. Anche lui vacilla, anche lui smarrisce la strada. È un testimone che si fa vittima, un inquisitore che si lascia stregare. E anche questo è teatro: la verità si sposta, il punto di vista si sporca, il pubblico si interroga. La scena di Ciro Lima Inglese è ridotta all’essenziale, ma contiene tutto: passato, presente, omissione. Il disegno luci di Tommaso Vitiello cesella il tempo e lo spazio, come se ogni passaggio d’umore avesse bisogno di una nuova ombra, una fenditura, una penombra densa. I costumi di Teresa Acone pescano nel liberty già avvizzito, quello dove il bello è già decaduto e il sogno ha una fodera logora. Le musiche di Valerio Virzo sono discrete ma decisive, come una colonna vertebrale emotiva: sostengono senza mostrarsi, ricordano senza invadere. Il processo si snoda, tra bugie e confessioni, come un rosario sbagliato. Le perle sono schegge, le preghiere diventano amnesie. Il giovane – che non ha mai avuto un nome – muore non per un gesto, ma per accumulo: di incomprensione, di fastidio, di paura. È troppo altro per essere lasciato vivere. È troppo diverso per non disturbare. E il mondo, si sa, i disturbi li cura eliminandoli. Streghe da marciapiede è una tragedia senza coro, una fiaba dove il lieto fine è stato sfrattato. Ma è anche un atto d’amore verso chi, nel proprio dolore, continua a cercare una forma. È il ritratto di una società marginale che non chiede vendetta, ma uno specchio. E quando lo specchio arriva – cioè il giovane – non riesce a reggere il peso dello sguardo. E si frantuma. Silvestri scriveva per chi non ha voce. E Amatucci ascolta, raccoglie, traduce. Il suo gesto registico è rispettoso, ma mai calligrafico. Non mette cornici dorate: fa spazio, lascia agire le crepe, lascia che l’imbarazzo e l’ambiguità restino lì, come polvere che nessuno ha il coraggio di spazzare via. Chi esce dal Teatro Vittoria non ha imparato nulla di rassicurante. Ma ha fatto esperienza di qualcosa che somiglia molto a una verità: quella che passa attraverso il non detto, che vive nella contraddizione, che si agita nei margini. E che, quando la si incontra, non consola. Ma resta.