Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025
“ANNA BOLENA”
Tragedia lirica in due atti Libretto di Felice Romani
Musica di Gaetano Donizetti
Enrico VIII ALEX ESPOSITO
Anna Bolena LIDIA FRIDMAN
Giovanna Seymour CARMELA REMIGIO
Lord Rochefort WILLIAM CORRÒ
Lord Riccardo Percy ENEA SCALA
Smeton MANUELA CUSTER
Sir Hervey LUIGI MORASSI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Renato Balsadonna
Maestro del coro Alfonso Caiani
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Light designer Oscar Frosio
Nuovo allestimento Teatro La Fenice
Venezia, 28 marzo 2025
Anna Bolena non compariva alla Fenice dal lontano 1857. Il riproporla dopo tanto tempo costituiva per i responsabili dello spettacolo un privilegio e, insieme, una sfida. Fortunatamente sia il direttore Renato Belsadonna, che il regista, Pierluigi Pizzi, sono due artisti particolarmente sensibili e preparati, in grado di affrontare degnamente il non facile compito loro assegnato. Lavorando in sintonia, hanno scelto di rappresentare il capolavoro donizettiano nella sua stesura pressoché integrale – sulla base dell’edizione critica curata da Paolo Fabbri –, per valorizzare le novità strutturali e stilistiche della partitura, coadiuvati da un cast straordinario. Il che è fondamentale per un opera ove domina il belcanto. Per entrambi gli artisti, il punto di riferimento era la memorabile edizione scaligera del 1957 – seppure la partitura fosse stata allora ampiamente ‘tagliata’ –, diretta da Gianandrea Gavazzeni con la regia di Luchino Visconti, nonché Maria Callas e Giulietta Simionato come protagoniste: lo storico spettacolo ha dato il via alla ‘Donizetti Renaissance’, un rinnovato interesse verso il Bergamasco, che ha portato a riscoprire questo autore, prima considerato un epigono di Rossini. Un fondamentale impulso in questo senso lo dato Gavazzeni, con il contributo prima della Callas e in seguito di Leyla Gencer, le splendide interpreti che tutti ancora adoriamo.
Quanto al nuovo allestimento per la Fenice, Pizzi ha lavorato per sottrazione, perseguendo una generale semplificazione dell’apparato scenico a vantaggio degli affetti e dell’introspezione psicologica dei personaggi. L’insigne regista – ideatore anche di scene e costumi –, considerando giustamente Anna Bolena un’opera ‘di cantanti’, ha assegnato il primato al belcanto, più che all’ambientazione, finalizzata ad orientare il pubblico e collocare i personaggi in un determinato contesto, desunto – udite, udite! – dal libretto e dalla musica. Il regista si focalizza sull’interpretazione dei cantanti per creare personaggi credibili, che – inseriti in un clima drammatico – toccano direttamente il cuore degli spettatori. Lo spettacolo è spoglio, asciutto, ma non minimalista. La scena è costituita da un’ampia struttura grigia in legno, ispirata a un’architettura tardogotica, le cui nervature portanti fanno pensare a una sorta di grande gabbia: si tratta di un contenitore fisso, che all’inizio rappresenta una grande sala del Castello di Windsor, poi diventa una stanza da letto sobriamente addobbata e alla fine addirittura un carcere. Essa crea quel senso claustrofobico e oppressivo, che caratterizza tutta la storia e al quale contribuiscono le luci generalmente soffuse (disegnate da Oscar
Frosio) e i costumi, in buona parte scuri e dall’essenziale eleganza, che se non rimandano storicisticamenre ai Tudor, fanno nondimeno percepire il senso di un’epoca. Spiccano suggestivamente in questo grigiore, pochi elementi, tra cui il rosso del mantello di Percy e del costume di Giovanna Seymour, oltre al bianco perlaceo di quello di Anna prima del suo tragico epilogo, che la vedrà rigorosamente vestita di nero. Piccoli capolavori di sobrietà dell’intramontabile Pizzi. Coerentemente con l’impostazione registica, Renato Belsadonna si concentra sui cantanti sostenendoli con un gesto sempre chiaro e preciso nel loro cimentarsi con una scrittura, che può essere considerata la quintessenza del belcanto, con la doverosa precisazione che la linea vocale, anche quando è ricca di abbellimenti, è sempre funzionale all’espressione drammatica. La sua lettura ha, dunque, messo in valore il canto, otre all’elegante orchestrazione di Donizetti, che evoca un’atmosfera cupa e opprimente, ma sa anche illuminare momenti più sereni come all’inizio del duetto con Giovanna, introdotto dalla preghiera di Anna, in cui i corni accompagnano quasi come un organo la preghiera;
o nella scena della pazzia, dove all’alternarsi dei sentimenti contrastanti di Anna corrisponde l’eterogeneità della strumentazione orchestrale e l’apparente illogicità della sintassi musicale. Incantevole, in “Al dolce guidami” il corno inglese che, dopo l’introduzione, duetta in terza con Anna. E proprio in “Al dolce guidami”, uno squarcio di struggente lirismo, che precede la tragica fine della protagonista, Lidia Fridman ha sedotto particolarmente il pubblico. Quasi trasfigurata, ormai rapita in un’altra dimensione, il soprano russo ha concluso in modo esaltante la sua interpretazione, con cui ha saputo rendere la complessità psicologica della regina ripudiata, aderendo al linguaggio di Donizetti – straordinario per carica emotiva, virtuosismi, colori e contrasti –, senza che la regalità e la nobiltà del personaggio venissero meno, neanche nel momento in cui viene sopraffatto dalla follia. Una prova di belcanto e intensità espressiva, duttilità vocale e presenza scenica, nell’affrontare una parte che fu scritta per Giuditta
Pasta. Le ha corrisposto – per doti interpretative e vocali – il soprano Carmela Remigio, quale Giovanna: elegante ed intensa sul piano espressivo – nel suo dibattersi tra il sentimento di lealtà verso la regina, l’amore illegittimo per Enrico, il senso di colpa per il tradimento –, ha tenuto testa ad Anna nel grande duetto con la rivale. Pienamente apprezzabile la prova del mezzosoprano Manuela Custer, nei panni di Smeton, che ha analogamente fatto valere ragioni del belcanto e del gesto scenico. Sul versante maschile il basso Alex Esposito – specializzatosi nelle parti da ‘cattivo’ – ha sfoggiato ancora una volta la sua voce ‘profonda’ quanto estesa, nel delineare un Enrico VIII dispotico, cinico, crudele, offrendo un’interpretazione incisiva e vigorosa, anche per le sue doti attoriali. Credibile l’impetuoso Percy del tenore Enea Scala, che ha saputo affrontare dignitosamente l’impervia tessitura di un ruolo pensato per Giovanni Battista Rubini, segnalandosi in “Vivi tu, te ne scongiuro”. Positiva la prova del baritono William Corrò (Rochefort) e del tenore Luigi Morassi (Hervey), oltre a quella del coro, istruito da Alfonso Caiani. Successo estremamente caloroso in particolare per la protagonista.