Roma, Teatro India
LA BANALITA’ DELL’AMORE
di Savyon Liebrecht
adattamento e regia Piero Maccarinelli
con Anita Bartolucci, Claudio Di Palma, Giulio Pranno, Mersila Sokoli
costumi Zaira De Vincentiis
disegno luci Javier Delle Monache
musiche Antonio Di Pofi
aiuto regia Emanuela Annecchino
assistente costumi Francesca Colica
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 06 maggio 2025
Non c’è conforto nella scena, nessuna carezza, nessun riparo. La banalità dell’amore, per la regia di Piero Maccarinelli, non si abbandona alla narrazione edificante né indulge in rassicuranti mitografie. Sceglie piuttosto il terreno impervio dell’ambiguità morale, lì dove il pensiero si piega al desiderio e l’etica vacilla sotto il peso dell’amore. La scrittura di Savyon Liebrecht, rarefatta e febbrile, restituisce in forma teatrale lo scandalo ancora aperto della vicenda tra Hannah Arendt e Martin Heidegger: un rovello privato che attraversa come un’ombra incombente tutto il pensiero del Novecento. Andato in scena al Teatro India di Roma, lo spettacolo prende le mosse da un interno sobrio, quasi ascetico: una stanza spoglia a New York, 1975. La grande filosofa, convalescente dopo un infarto, cerca di difendere un’apparente pace domestica, come se il corpo malato potesse arginare il tumulto della mente. Ma la quiete è solo un’illusione. L’arrivo di un giovane giornalista – una presenza disturbante e necessaria squarcia il presente e ne fa deflagrare le crepe. Là dove molti avrebbero fatto del teatro un’aula di tribunale, Maccarinelli opera una scelta più radicale: quella della sottrazione. Niente retorica, nessun didascalismo: solo tensione, solo conflitto.
La scenografia di Carlo De Marino taglia il palco come un bisturi: due spazi paralleli – il tempo della vecchia Arendt, interpretata con inesausta verità da Anita Bartolucci, e il tempo del ricordo, abitato dalla giovane Hannah . Due tempi che non si rincorrono, ma si urtano. Due figure che non si comprendono, ma si scrutano con tenerezza e sgomento. Come due coscienze scisse, mai del tutto pacificate. Tuttavia, proprio in questa scelta formale risiede anche una lieve incrinatura strutturale: a tratti, i tempi registici si mostrano rallentati, come se il ritmo interno alla scena cercasse invano di aderire alla tensione drammaturgica. Alcuni passaggi risultano così scollati, più statici che sospesi, perdendo quella vibrazione necessaria affinché la dialettica interna si traduca in reale combustione teatrale. Le musiche di Antonio Di Pofi, efficaci nei momenti di rievocazione — dove l’evanescenza del suono amplifica la dimensione mnestica della scena — tendono invece ad apparire troppo marcate nei passaggi drammatici, a tratti persino stridenti, come se cercassero di sopperire, con enfasi sonora, a un’emozione che il testo già possiede in nuce.
Sul versante attoriale, Anita Bartolucci domina la scena con un’intensità scultorea: la sua Hannah anziana è un corpo segnato dal tempo, ma anche una mente ancora tagliente, capace di scatti ironici che fendono la tensione. Mersila Sokoli, nel ruolo della giovane Arendt, incarna con vigore il cuore contraddittorio di una passione che non si lascia contenere dalla ragione. Claudio Di Palma, nel ruolo di Heidegger, sfugge alla caricatura e restituisce un filosofo diviso, ambiguo, affascinante e colpevole di un tradimento intellettuale prima ancora che umano. Giulio Pranno, pur portando in scena il giovane Michael Ben Shaked con garbo e misura, risulta tuttavia leggermente più fragile rispetto ai colleghi: la sua prova, pur onesta e intensa, manca talvolta di quella densità emotiva che avrebbe potuto rendere più incalzante il confronto generazionale e più lacerante la carica accusatoria del personaggio. La drammaturgia evita con intelligenza le trappole del biopic: nessuna cronaca, nessuna sequenza illustrativa. Piuttosto, un viaggio nel cuore spaccato della memoria, dove le voci non si sovrappongono ma si rispondono come echi. Nazismo, Shoah, esilio sono presenze fantasmatiche, che non vengono tematizzate esplicitamente ma che bruciano sotto la superficie, come ceneri ancora incandescenti.
Il vero fulcro è l’ambiguità: quella dell’intelletto che non salva, dell’amore che non assolve, della memoria che non consola. Nel finale, quando la giovane Hannah si dissolve nell’ombra e l’Arendt anziana rimane sola, di spalle, a scrutare una finestra senza luce, resta soltanto la certezza che il pensiero, da solo, non basta. Che la verità, forse, non risana. E che l’amore, nella sua forma più nuda e scandalosa, può diventare una condanna silenziosa. Risuona allora, come un sussurro che non si spegne, il monito di Rilke: “Il bello è solo l’inizio del tremendo.” E forse, questo spettacolo, proprio perché si rifiuta di essere catartico, è oggi più necessario che mai.