Castel Gandolfo, Polo Museale
BELLINI E SODOMA. PASSIONE DI CRISTO
organizzazione Direzione dei Musei e dei Beni Culturali
in collaborazione con laDirezione delle Ville Pontificie
Castel Gandolfo, 11 maggio 2025
«In ogni cadavere cristologico si cela un apologo pittorico: non la morte, ma la sua forma, e dunque l’arte stessa.»
(F. Zeri, appunti inediti dal Fondo Federico Zeri, Biblioteca di Storia dell’Arte, Bologna)
Così si potrebbe aprire una dissertazione degna del miglior esegeta delle immagini, davanti alla mostra attualmente in essere presso il Polo Museale di Castel Gandolfo: “Bellini e Sodoma. Passione di Cristo”, un piccolo ma densissimo saggio visivo, curato da Fabrizio Biferali – Responsabile per l’Arte dei secoli XV e XVI – che convoca due vertici del pathos figurativo italiano per indagare la perenne tensione iconografica tra caducità e redenzione, tra sangue e gloria, tra la materia e la sua trascendenza. L’accostamento è di quelli che obbligano alla riflessione dotta, non solo sul piano della storia dell’arte ma, più sottilmente, su quello della cultura della rappresentazione sacra. Da un lato, il Compianto sul Cristo morto di Giovanni Bellini – tavola destinata in origine alla cimasa della Pala di Pesaro, eseguita attorno al 1475 per la chiesa di San Francesco nella medesima città – opera che riassume, in una compostezza estrema, la quintessenza del dolore veneziano, nutrito di pietas bizantina e di misura umanistica. Dall’altro, il Cristo morto sorretto da angeli di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, databile attorno al 1505 e proveniente dall’Arciconfraternita romana di Santa Maria dell’Orto, ove la figura di Cristo, adagiata e quasi fluttuante, appare come sospesa tra l’eco raffaellesca e il sogno nordico, riletto alla luce di una sensualità inquieta, tutta lombarda. Bellini, nella sua tavola, costruisce una scena ieratica ma non immobile, dove il corpo del Cristo disteso è trattato con la stessa attenzione meticolosa che egli riserva alle Madonne: non vi è fretta narrativa, né alcuna concessione all’enfasi. È un quadro dove il silenzio è forma pittorica, e la compostezza del dolore assume tratti quasi liturgici. Il fondo oro perduto, le velature minute, le ombre che si assottigliano sullo sfondo, tutto testimonia di una mano che, più che dipingere, scolpisce la luce.
Non sorprende che, per lungo tempo, l’opera fu attribuita a Mantegna: la rigidità marmorea del Cristo, la costruzione prospettica della pietra tombale, l’impaginazione scultorea dei personaggi si legano a quella linea severa, padana, che Bellini stesso conobbe e superò, fondendo la scuola ferrarese con la nuova luce veneziana. Solo nel 1871, dopo un travagliato percorso – che la vide trafugata dalle truppe napoleoniche nel 1797 e restituita all’Italia nel 1816 – l’opera fu riconosciuta come autentico lavoro del maestro veneziano e inserita stabilmente nella Pinacoteca Vaticana. Il restauro recente, condotto con scrupolo filologico da Marco Pratelli e sostenuto dalla generosità del Capitolo dell’Illinois dei Patrons of the Arts in the Vatican Museums, ha restituito all’opera il suo equilibrio tonale originario. Le indagini diagnostiche, eseguite dal Gabinetto di Ricerche Scientifiche, hanno confermato la struttura preparatoria e il raffinato uso delle lacche, confermando l’altissimo livello tecnico raggiunto da Bellini negli anni della maturità. Diversa, e in certo senso più perturbante, è la lettura offerta dal Sodoma.
Il suo Cristo morto sorretto da quattro angeli si pone su un registro visivo che non è più quello della compostezza liturgica, ma dell’estasi drammatica. Il corpo del Redentore non giace, ma è sollevato, portato, quasi offerto. Gli angeli non piangono, ma danzano attorno alla figura centrale, in un gioco di panneggi, torsioni e sguardi che ricorda più la visione di un Beato Angelico trasfigurato dalla sensibilità manierista che la compostezza rinascimentale. La derivazione dalla placchetta bronzea del Moderno, artista veronese attivo tra fine Quattrocento e primo Cinquecento, è una citazione colta, un segno della cultura figurativa e antiquariale del Sodoma, che fu artista sensibilissimo alle contaminazioni, alle migrazioni iconografiche, alla libertà di interpolazione. Il restauro condotto tra il 1933 e il 1934, nei laboratori vaticani, ha permesso la conservazione dell’opera all’interno di una preziosa cornice settecentesca, ornata dal simbolo del cipresso, elemento distintivo della Madonna dell’Orto e dell’Arciconfraternita che la commissionò. Il legame tra immagine e devozione si fa qui strettissimo, come accade spesso nell’arte romana del primo Cinquecento, dove l’interiorizzazione del sacro passa attraverso forme ardite, prossime al barocco in nuce.
Accostare queste due opere non è un semplice atto curatoriale: è un’operazione intellettuale. Si pongono a confronto due idee di corpo, due modelli di pietà, due modi di intendere la morte come soglia: Bellini la contempla, Sodoma la attraversa. L’uno scolpisce il silenzio del sepolcro, l’altro invoca la voce della resurrezione. In entrambi, però, il corpo del Cristo non è morto: è pittoricamente eterno. È il corpus mysticum della pittura italiana, che nella Passione trova il proprio teatro simbolico, e nel dolore la grammatica più eloquente. Collocata negli ambienti ipogei del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo – luogo di residenza, contemplazione e oggi anche di apertura al pubblico –, la mostra diviene così non solo un evento espositivo, ma un laboratorio di visione. L’ingresso, incluso nel biglietto al complesso museale, consente al visitatore di proseguire l’itinerario nei Giardini del Moro e nel Giardino Segreto, laddove il pensiero si fa passeggio e la riflessione prende il passo lento della natura. “Bellini e Sodoma. Passione di Cristo” non è mostra per turisti frettolosi, ma per osservatori lenti, per studiosi e pellegrini della bellezza. “Ogni quadro è un enigma che si risolve nella pazienza dello sguardo“: e davanti a questi due corpi martoriati e splendenti, la pazienza è una forma di devozione critica.
Castel Gandolfo, Polo Museale: “Bellini e Sodoma. Passione di Cristo”
