Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“JEPHTHA”
Oratorio in tre atti HWV 70, su libretto di Thomas Morell, basato sul libro dei Giudici e su Jephthas, sive votum di George Buchanan
Musica di Georg Friedrich Haendel
Jephtha MICHAEL SPYRES
Storgè JOYCE DIDONATO
Iphis MELISSA PETIT
Zebul CODY QUATTLEBAUM
Hamor JASMIN WHITE
Un angelo ANNA PIROLI
Il Pomo d’Oro
Direttore Francesco Corti
Maestro del Coro Giuseppe Maletto
Esecuzione in forma di concerto
Madrid, 1. Maggio 2025
Per eseguire un oratorio di Haendel dalle proporzioni magniloquenti come Jephtha è necessario disporre non soltanto di un gruppo di cantanti vocalmente e tecnicamente impeccabili (la precisazione non è poi così ovvia), ma anche di validi interpreti di quel tipo specifico di drammaturgia che è l’azione oratoriale. Un’esecuzione in forma di concerto, inoltre, non può prescindere dall’importanza dei movimenti sulla scena e dalla gestualità; da ultimo, essa innalza le aspettative del pubblico in termini di espressività e trasmissione degli affetti, per scongiurare il pericolo dell’uniformità e della monotonia. Il Pomo d’Oro diretto da Francesco Corti, impegnato in una tournée europea con il titolo haendeliano, può affidarsi a un quintetto vocale eccellente, un diamante a due punte, che risponde ai nomi di Michael Spyres (il protagonista) e Joyce DiDonato (Storgè, sua sposa), supportati da diciassette coristi (un cui integrante, il tenore Giuseppe Maletto, fondatore della compagine, è anche il Maestro del Coro). Corti opta per un suono omogeneo, compatto e unitario, anche quando qualche strumento assolve la funzione di accompagnamento obbligato, per stabilire come una fascia di sonorità dagli estremi definiti, al cui interno si alterna un’impressionante ricchezza cromatica. Nei momenti vocali l’orchestra preferisce lasciare sempre in primo piano la voce cantante, ma questo non impedisce indimenticabili momenti di protagonismo strumentale (come i tremuli degli archi in alcuni numeri particolarmente concitati). La voce di Spyres si è fatta leggermente brunita, ma più che la bellezza del timbro risaltano l’emissione perfetta, le agilità sgranate e gli impressionanti fiati impiegati per esaurire le colorature. Nell’accompagnato del n. 15 («What mean these doubtful fancies the brain?»), poi, il declamato solenne e marziale si appoggia a
una cavata enorme, con cui il tenore soggioga l’ascoltatore; al contrario, quando il padre si appresta a sacrificare la figlia, all’inizio del III atto, Spyres è capace di cantare un’intera aria a mezza voce, tutta sul fiato, per esorcizzare l’orrore dell’assassinio (n. 50, «Waft her, angels, through the skyes»: tanto commovente l’effetto, da strappare un applauso a parte). Anche Joyce DiDonato imposta la propria interpretazione su forti contrasti emotivi: se esordisce come espressione dell’amore coniugale elegiaco e remissivo, ma adombrato da presagi funesti (n. 18, «Scenes of horror, scenes of woe», da cui traspare lo spavento), è poi capace di reazioni violente, come si quando si oppone all’olocausto della figlia per mezzo di emissioni di petto e messe di voce incrinate dal dolore (n. 41, «Let other creatures die?»: sembra di riascoltare il piglio di tante eroine rossiniane, così familiari alla cantante). Molto buona anche la prestazione del soprano Melissa Petit (nella parte di Iphis, figlia di Iefte), soprattutto per il vibrato della linea di canto, anche se il timbro è più convenzionale e l’emissione corriva alle voci fisse. Suscita un applauso a parte l’espressività con cui accetta il proprio sacrificio nell’aria «Happy they! This vital breath» (n. 46). Non sempre solida nel registro inferiore la voce di Cody Quattlebaum, il basso che interpreta Zebul, fratello di Iefte. Il contralto Jasmin White rende un Hamor (l’innamorato di Iphis) assertivo e sicuro, brillante tanto nelle arie a solo quanto nei numeri d’insieme. Un altro soprano, Anna Piroli, esce dal coro per dare voce
all’Angelo che impone di evitare il sacrificio umano. Magnifico il Coro del Pomo d’Oro, nella cui tessitura risaltano sovente alcuni timbri femminili. Se a ogni personaggio principale corrisponde un registro fondamentale (Jephtha è l’eroismo profetico; Iphis la grazia; Storgè l’amore elegiaco; Hamor la passione), il direttore fa in modo che in ogni numero della partitura l’orchestra esprima un “temperamento” peculiare. L’accorgimento risulta tanto più opportuno, per valorizzare le complesse dinamiche narrative di Jephtha, che parlano il linguaggio della tragedia greca (riproponendo il conflitto di Ifigenia in Aulide) e dell’opera seria europea (è in nuce la trama di Idomeneo re di Creta), giacché si tratta di attenuare il cruento sacrificio umano con la consacrazione al Signore. Grazie all’esperienza cristiana, la pagina dell’Antico Testamento si trasforma così in una pièce à sauvetage; una metamorfosi che si coglie perfettamente anche nella musica haendeliana, quando trascorre dall’aria individuale a duetto e poi a quintetto, per ampliarsi finalmente in un maestoso rendimento di grazie corale (nn. 66b-67), a gloria della pace che soppianta la spada. Nulla a che vedere con la spietata stringatezza della pagina originale del libro dei Giudici, nel punto in cui si conclude la vicenda: la figlia ritorna a casa e Iefte semplicemente «fecit ei sicut voverat», “si comportò con lei secondo il voto che aveva pronunciato” (11, 39). Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid
Madrid, Teatro Real: “Jephtha”
