Milano, Teatro alla Scala: “Trittico Weill”

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera 2024/25
TRITTICO WEILL: DIE SIEBEN TODSÜNDEN, MAHAGONNY SINGSPIEL, THE SONGS OF HAPPY END”
Su testi di Bertolt Brecht ed Elisabeth Hauptmann
Musica di Kurt Weill
Anna I, Bessie, Mary ALMA SADÉ
Anna II, Jessie, Jane LAUREN MICHELLE
Bruder I, Bobby, Sam Worlitzer ELLIOTT CARLTON HINES
Mutter, Jimmy ANDREW HARRIS
Vater, Charlie, Ein Mann MATTHÄUS SCHMIDLECHNER
Bruder II, Billy, Hanibal Jackson MICHAEL SMALLWOOD
Bill Cracker MARKUS WERBA
Die Fliege NATASCHA PETRINSKY
Lilian Holiday WALLIS GIUNTA
Attore GEOFFREY CAREY
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Regia, Scene, Costumi e Video Irina Brook
Luci Marc Heinz
Coreografia Paul Pui Wo Lee
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 20 maggio 2025
Come Milano è stata in passato la città brechtiana d’Italia, grazie alla presenza e all’azione di due artisti straordinari come Giorgio Strehler e Milva, possiamo ben riconoscerle un presente brechtiano grazie a Riccardo Chailly, che negli ultimi cinque anni ha fortemente voluto la presenza del compositore brechtiano per antonomasia, Kurt Weill, sul palcoscenico scaligero, in forme ridotte, ma sempre di eccezionale qualità. Quest’anno il dittico presentato quattro anni fa, ossia “Die sieben Todsünden“ e il “Mahagonny Songspiel“ si arricchisce di una terza parte, che si rivela anche, a dirla tutta, la migliore, e cioè “The Songs of Happy End”, riduzione senza dialoghi dell’operetta scritta nel ‘29. L’operazione è particolarmente riuscita anche per l’ordine scelto: “Die sieben Todsünden” è senza dubbio, dei tre, l’opera più cerebrale, anche sperimentale (trattandosi di un balletto con voci), che serve a risvegliare lo spettatore e gettarlo nella critica del mondo capitalista di Brecht e Weill; il “Mahagonny Songspiel“, antologia dell’unica opera stricto sensu composta da Weill, “Ascesa e caduta della città di Mahagonny“ del 1930, ospitata alla Piccola Scala l’ultima volta sessantuno anni fa, delinea più chiaramente la natura marxiana di questo critica, mostrandoci una realtà di furfanti e prostitute, intenti unicamente al guadagno senza scrupoli; infine “Happy End” che, anche privato dei non brevi dialoghi, cui generalmente spetta il compito di far capire l’azione scenica, funziona a meraviglia, grazie ai testi fra i migliori concepiti dal poeta tedesco – o, ad essere onesti, dall’allora sua amante Elisabeth Hauptmann –, che fungono da eserciziario delle teorie espresse in “Mahagonny“ ponendoci di fronte una irresistibile schiera di esempi terrificanti, nei quali, tuttavia, nessuno può veramente dire di non riconoscersi: l’impenitente donnaiolo Surabaya Johnny, la casta Lily (interpretata da una soave Wallis Giunta, mezzosoprano dai portamenti elegantissimi), intenta a voler salvare l’umanità, che alla fine capisce di preferire l’inferno al paradiso, o luoghi dai tratti malfamati quanto fiabeschi, come la taverna di Bill a Bilbao o il mitico bordello di Mamma Goram, su cui non sempre splende la luna. La concertazione di Chailly è puntuale, come sempre, ma qui il direttore può anche mostrarsi umano, permettersi di abbandonarsi, di rubare, mostrando tutta la sua personale preferenza a questo repertorio da funambolo, tra gli ultimi sprazzi del sinfonismo tonale, la canzone popolare (sovente di tradizione ebraica) e l’allucinato jazz delle avanguardie. È un Brecht di lusso, quello di Chailly, poiché non è un Brecht, ma giustamente un Weill, compositore sontuoso, che nulla ha da invidiare a ben più celebrati suoi coetanei. A ricostruire la vera identità musicale di queste opere contribuisce, senza dubbio, anche l’eccezionale cast, in mezzo al quale brillano le stelle di Alma Sadé, Lauren Michelle e Natascha Petrinsky: soprani le prime, formidabili insieme nei ruoli di Anna I e Anna II nel Prologo dei “Sieben Todsünden” e di Bessie e Jessie nell’“Alabama-Song” e nel “Benares-Song” di “Mahagonny”; la Petrinsky, interprete magistrale del repertorio novecentesco, compare nel ruolo della Mosca per una Höllenlili da manuale, aspra quanto efficace vocalmente, calata del tutto nel personaggio. Fra gli interpreti maschili spiccano i baritoni – il registro preferito da Weill – Elliott Carlton Hines (soprattutto in qualità di rocambolesco e irresistibile Sam Worlitzer in “Happy End”) e Markus Werba, che specialmente con “Bilbao-Song” sa coniugare la sua piena padronanza del mezzo vocale dal colore fresco, con una dizione godibile e scandita, e una presenza scenica rutilante e lievemente manierata. Tuttavia i pezzi migliori in assoluto sono quelli d’insieme, come la “Vollerei” dei “Sieben Todsünden”, il Terzo “Mahagonny-Song” e “Hosiannah Rockefeller” di “Happy End”; infine, da segnalare è il tango “Youkali”, sempre ad opera mirabile della Giunta, che pur non appartenendo all’operetta, chiude la serata in maniera accorata e tagliente allo stesso tempo. Sulla regia di Irina Brook si scrisse già nel 2021 e, a dirla tutta, alcune riserve rimangono: la Brook decide di spostare la denuncia, di cui le opere sono foriere, dal capitalismo all’inquinamento e il climate change, operando di per sé non una vera e propria forzatura, ma un’attualizzazione che, tuttavia, sembra sottendere all’idea che il capitalismo, oggi, non faccia più paura – mentre oggi più che mai occorre aprire gli occhi sul nostro sistema economico-sociale, poiché è l’origine conclamata anche dei problemi ambientali. Insomma, tutta questa plastica, tutte queste proiezioni di disastri ecologici, sembrano aggirare l’ostacolo, non saltarlo, né lavorare per distruggerlo (com’era invece l’intento di Weill e Brecht); il terzo atto, invece, trova una misura maggiore, sia nella messa in scena – si abbandona l’éscamotage della metateatralità per un’impostazione più da recital, con semplici sedie nere e i personaggi seduti fin dall’inizio – ma anche nelle scene tutte in nero e oro, semplicissime ed efficaci. C’è da augurarsi che dopo questo dittico, evolutosi in trittico, la Scala si prenda la responsabilità di produrre le intere opere, “Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny” e “Happy End”, garantendo la presenza di Brecht e Weill anche nel prossimo futuro. Foto Brescia & Amisano