Milano, Teatro Carcano, Stagione 2024/25
“IMPROVVISAMENTE L’ESTATE SCORSA”
di Tennessee Williams – traduzione di Monica Capuani
Violet Venable LAURA MARINONI
Catherine Holly LEDA KREIDER
Dottor Cuckrowicz EDOARDO RIBATTO
Grace Holly ELENA CALLEGARI
George Holly ION DONÀ
Regia Stefano Cordella
Scene Guido Buganza
Costumi Ilaria Ariemme
Luci Marzio Picchetti
Suono Gianluca Agostini
Produzione LAC Lugano Arte Cultura in coproduzione con Teatro Carcano e Gruppo Ospedaliero Moncucco
Milano, 11 maggio 2025
Sebbene la pellicola del ‘59 con Elizabeth Taylor e Katherine Hepburn l’abbia sdoganato a livello mondiale, “Improvvisamente l’estate scorsa” è un testo più fragile e insidioso di quanto si pensi: la sceneggiatura cinematografica, d’altronde, deve a Gore Vidal la maggior parte delle sue pagine, come lui stesso afferma nella sua autobiografia – e infatti tutti quelli che l’hanno portato in scena hanno sempre interpolato stralci più o meno ampi della sceneggiatura nel testo teatrale; il dramma originale è paradossalmente (visto il Codice Hayes in vigore a Hollywood) più reticente, meno grandguignolesco, più sottile della sua riduzione cinematografica, ma, nello stesso tempo, se si legge sotto la superficie, più inquietante e meno facilmente “digeribile”.La riproposizione di Stefano Cordella non fa eccezione: anche qui si sente l’influenza dello script, soprattutto nel personaggio di Violet, più giovane, trasognata e autonoma rispetto alla decrepita e mefistofelica ex-seduttrice in sedia a rotelle dell’originale; tuttavia, i problemi più evidenti di questa regia riguardano le dinamiche tra i personaggi: l’eliminazione di due ruoli secondari come Miss Foxhill e soprattutto Suor Felicity fanno sì che il personaggio di Catherine non viva un completo rifiuto della famiglia, rifugiandosi talvolta nelle braccia della madre, addirittura in quello del perfido fratello George, travisando del tutto la narrazione williamsiana di una famiglia disfunzionale pronta a vendere la figlia per centomila dollari; pure il rapporto fra Cathy e Violet è gestito in
maniera troppo impari: le due donne, infatti sono specchio l’una dell’altra, due adescatrici, entrambe al servizio del perverso Sebastian, ma per ragioni diverse – Cathy poiché si invaghisce del cugino in un momento di profonda fragilità psichica, Violet poiché è quasi morbosamente innamorata del figlio, che sostituisce al marito, sia nelle sue fantasie che nell’effettiva routine quotidiana; qui, invece, sembrano soltanto una ricca prepotente che si impone su una povera isterica che altro non fa che strillare, correre su e giù per il palco e mangiarsi le parole di uno dei più lunghi monologhi a memoria d’uomo (decisamente non una delle migliori prove di Leda Kreider). Non c’è profondità, non c’è una chiara indagine nei rapporti, e di conseguenza viene a mancare anche l’effettiva comprensione della dinamica della tragedia (molte persone tra il pubblico, specialmente tra le più agé, dichiarano di non aver capito esattamente il perché della morte di Sebastian, e dell’astio di Violet per la nipote psicolabile). Infine, e qui la critica si fa più sottile, quello che Cordella non rispetta maggiormente è la natura del dramma williamsiano, che è molto specifica, aderente al contenuto, inevitabile se si vuole portare in scena questo autore (e al contempo giudicata da critici e storici del teatro anche il suo
limite più grande): Williams non è Shakespeare o Euripide, non è ancora, come è naturale che sia, un classico, e va portato in scena e specialmente recitato con una specifica esteriorità che veicoli l’ossessiva morbosità delle sue storie, la conclamata intenzione di scompaginare lo well-to-do americano del Novecento; per fare questo, tuttavia, non si serve quasi mai di sperimentazioni o tentativi avanguardistici, ma usa esattamente quei linguaggi manieristi, a tratti stereotipati e sussiegosi, che caratterizzavano il teatro “perbene” americano della prima metà del secolo. In poche parole: non si può recitare Williams come si recita un dramma di un autore italiano contemporaneo, ma piuttosto come si reciterebbe O’Neill, Thornton Wilder, quella stessa tradizione su cui Williams si era formato. Cercare un’esasperata naturalezza nei gesti, nelle intonazioni, nelle emissioni e nelle posizioni in scena, non funziona con i testi di Tennessee Williams, ne impoverisce il portato contenutistico: ad esempio, in questa regia manca del tutto la tensione sessuale, l’incesto madre/figlio, il desiderio soffocante di corporeità che trasuda da quasi ogni battuta di ogni personaggio (con l’eccezione del dottor Cuckrowicz), riducendo tutto alla storiella di una vecchia megera che vuole che sua nipote smetta di raccontare fandonie sul suo defunto figlio – ossia una storia che non interessa a nessuno. Tra il cast, peraltro, ben pochi interpreti riescono a illuminare la scena: Laura Marinoni, com’era
prevedibile, porta la sua esperienza di attenta vocalista, oltre che fascinosa interprete, al servizio di Violet Venable, sebbene anch’ella non sembri del tutto consapevole della fisicità del suo personaggio, che, paradossalmente, inizia in sedia rotelle, poi si alza aiutata da un bastone, e quando rientra in scena cammina disinvoltamente e si siede su un mobile sorseggiando un daiquiri; anche Elena Callegari, nel ruolo per nulla secondario di Grace Holly, la madre di Catherine, mostra soprattutto una vocalità pastosa e cadenzata, che richiama quegli Anni Trenta in cui Williams ha ambientato il dramma, e anche la sua fisicità avvolta di nero e minuta riesce, per quanto può, a imporsi allo spettatore. Per il resto, spiace constatare che gli interpreti maschili siano decisamente sottotono: Edoardo Ribatto è un Dottor Zucchero incolore, quasi impersonale, caratterizzato per di più da una vocalità straniantemente metallica; Ion Donà, invece, è semplicemente un George abbozzato, da prima lettura del copione, frutto del comune errore che porta gli attori a interpretare in maniera superficiale i personaggi superficiali, che spesso invece sono molto più complessi di quelli sviluppati a tutto tondo. Va detto che pure la traduzione di Monica Capuani (che non sappiamo se abbia anche curato l’adattamento del testo alla scena) risente di una serie di ingenuità e di fraintendimenti, quando non di scelte arbitrariamente brutte (è proprio necessario che nel momento più tragico, nell’acmé del dramma si sciorini l’aggettivo “spiaccicato”?). La scena di Guido
Buganza vorrebbe forse suscitare un qualche scandalo, vista la macchina sportiva bianca sfasciata che domina il palco, mentre in realtà questa presenza pretestuosa, e non del tutto chiarita, viene offuscata dal lussureggiante ed efficace giardino pensile che incombe sulla scena; altrettanto funzionale è il gioco di luci ed ombre ricreato da Marzio Picchetti, così come il suono di Gianluca Agostini, che, come da didascalia originale, alterna brevi momenti musicali a lunghe sequenze di suoni ambientali legati alla giungla (cinguettii, fruscii, schiocchi, ecc); i costumi di Ilaria Ariemme sono invece de facto slegati sia all’epoca storica sia a una qualsivoglia simbologia, suonando in parte stonati – perché George indossa una giacca decorata con paillette sul suo completo da tennista? E come si potrebbe definire “Schiaparelli” l’abito che Catherine indossa, sotto l’ingombrante cappotto? Il senso di insieme che lo spettacolo comunica è di una certa lontananza dalla riuscita: alcune idee, alcune interpretazioni, sono azzeccate e affascinanti; altre, invece, sembrano voler a tutti i costi attualizzare una storia di per sé inattuale, sfiorando da molto vicino l’ordinario, quando non il grottesco involontario. Foto Luca Del Pia
Milano, Teatro Carcano: “Improvvisamente l’estate scorsa”
