Parma, Teatro Regio: “Andrea Chénier”

Parma, Teatro Regio, Stagione 2025
ANDREA CHÉNIER
Dramma di ambiente storico in quattro quadri su libretto di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier GREGORY KUNDE
Carlo Gérard LUCA SALSI
Maddaleina di Coigny SAIOA HERNÁNDEZ
La mulatta Bersi ARLENE MIATTO ALBELDAS*
La Contessa di Coigny NATALIA GAVRILAN
Madelon MANUELA CUSTER
Roucher ANDREA PELLEGRINI
Pietro Fléville/Fouquier Tinville LORENZO BARBIERI
Mathieu MATTEO MANCINI
Un incredibile ENRICO CASARI
L’Abate ANZOR PILIA*
Schmidt/Il maestro di casa/Dumas EUGENIO MARIA DEGIACOMI
*Già allievi dell’Accademia Verdiana
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Nicola Berloffa ripresa da Florence Bas
Scene Justin Arienti
Costumi Edoardo Russo
Luci Valerio Tiberi riprese da Simone Bovis
Allestimento Teatro Regio di Parma, Teatro Comunale di Modena, Teatri di Piacenza, I Teatri di Reggio Emilia, Ravenna Manifestazioni, Opéra de Toulon
Parma, 11 maggio 2025
In un bel dì di maggio del 2025 ancora si può godere, a Parma, di un’esperienza operistica ch’è un tuffo nel passato: in cui il pubblico, a forza di ovazioni, costringe al bis ciascuno dei tre protagonisti, fra petroliniani gridolini di «bravo!», prima, e «grazie!», dopo. E in cui il cantante della casa (Salsi) lancia baci personalizzati, dispone dell’orchestra cui chiede di alzarsi a prendere l’applauso, e soccorre la collega con un bicchier d’acqua che la rinfranchi prima d’affrontare, a sua volta, il bis. È un’eredità, questa, da preservare nella sua ingenua autenticità: guai se dovesse diventare una forzatura a favore di turismo. D’altra parte, ci vogliono almeno due condizioni fondamentali, e qui c’erano. La prima, una regia latitante (nel senso di regia), ovvero una messa in scena secca: con l’ottima ragione che il «dramma di ambiente storico» non può essere traslocato nel tempo (come se regia questo significasse). Niente contro la messa in scena senza regia (anzi, al contrario!); ma quanto danneggiano il partito della «tradizione» allestimenti sciapi e scialbi come questo, firmato da Nicola Berloffa (e qui ripreso da Florence Bas), che passa per tradizionale solo perché si vede una ghigliottina e non un carro armato: fosse tutta qui la «tradizione» avrebbe ragione chi la butta alle ortiche. L’altra condizione è avere una terna di assi canori; posto che lo Chénier è e resta, come si è già ricordato, «dramma di ambiente storico», e in quell’ambiente ribolle una ciurma di personaggi cosiddetti minori da non sottovalutare. Come tutti sanno, Gregory Kunde è un fenomeno vocale, un caso portentoso, unico, epocale. La parte, massacrante per un giovane tenore nel pieno delle forze, consta di quattro momenti di esposizione solistica e due duettoni di prim’ordine. Con una scrittura che suggerisce sì la naturalezza del declamato, ma che pretende un canto sempre pieno, insistente sulla robustezza del registro centrale, ma che non risparmia anche acuti cui non debbono mancare virile solidità e sfolgorante turgore. Sembrerà strano, ma la voce del settantunenne Kunde aderisce bene a questo ritratto. Se volessimo proprio essere obiettivi dovremmo riconoscere che fisiologici segni di stanchezza comincino a far capolino, specie nel sostegno del fiato: che non manca mai, beninteso, solo se ne percepisce la fatica. Ma vogliamo davvero essere obiettivi? Ne varrebbe la pena? Gli acuti svettanti e di invidiata sicurezza autorizzano all’entusiasmo cieco (e sordo). La “primissima donna” è Saioa Hernández, formidabile allieva e plausibile erede di quella Montserrat citando la quale un loggionista indigeno «mi devo inginocchiare» , dice, e veramente si inginocchia, così, sul posto, sulle scale del Regio. Colpevolmente troppo poco presente nei cartelloni italiani, è una delle voci più importanti del nostro tempo. Il timbro è brunito ma resta carezzevole e femminile anche negli accenti più volitivi. Il controllo del fiato, impressionante, è assoluto. È la voce, voluminosa e tersa, di quello che si dice un autentico soprano drammatico: e non d’un lirico astuto. Tante e tali doti vocali che forse la Maddalena del primo quadro ne risulta fin troppo consistente: un po’ come la Cio Cio-San della Tebaldi. Luca Salsi, in un ruolo a lui congeniale almeno quanto quello di Scarpia, ricorda a tutti quale cosa meravigliosa possa diventare il teatro musicale quando il cantante si prenda la briga di leggere anche quelle sillabette che stanno sotto il pentagramma, di coglierne il senso e di restituirlo tramite il proprio, ch’è il più espressivo degli strumenti, la voce umana. Dalla marea parigina che affolla la locandina spiccano le voci robusta e piena ancorché assai slava per emissione della Coigny madre, Natalia Gavrilan; pastosa e morbida del premuroso Roucher, Andrea Pellegrini. Piuttosto pacata Manuela Custer nel cameo strappalacrime della vecchia Madelon, e ottima la vispa Bersi di Arlene Miatto Albeldas. Il Mathieu di Matteo Mancini vorrebbe forse un poco più di spregiudicatezza espressiva. Enrico Casari è un incredibile ma ben comprensibile in grazia di un’ottima dizione. Completano il cast Lorenzo Barbieri nei panni doppî di Fléville e Tinville; Eugenio Maria Degiacomi in quelli triplici di Schmidt, Maestro di casa e Dumas; e, ancora, l’abate di Anzor Pilia. Meriti altissimi vanno infine riconosciuti a Francesco Lanzillotta. È uno di quei rarissimi casi in cui le note di direzione pubblicate sul programma di sala rispecchiano bene la realtà che si ascolta. La sua direzione, pragmatica ma non di prammatica, si cura di contenere la generosità sonora dell’Orchestra Filarmonica Italiana in favore delle voci, lavorando piuttosto sulle qualità timbriche interne al suono. Per farlo, abbandona talvolta la bacchetta, ma sempre resta espressiva e sollecita la sua mano sinistra. Al solito affidabile il Coro del Regio di Martino FaggianiUno Chénier, insomma, che si potrebbe tradurre in immagini con qualcuna di quelle grisaglie che adornano il foyer del Regio: in cui i tre protagonisti soltanto sono scolpiti a tutto tondo, mentre gli altri restano appiattiti in uno stiacciato donatelliano, ma tutti sono circonfusi dall’eleganza neoclassica di una concertazione cameristica. Foto Roberto Ricci