Roma, Casa Museo Andersen
VINCENZO SCOLAMIERO: “COME SOGNI PERDUTI”
a cura di Maria Giuseppina Di Monte e Roberto Gramiccia
Roma, 12 maggio 2025
C’è un filo sottile e resistente che lega l’intera vicenda pittorica di Vincenzo Scolamiero: la volontà, tenace e introflessa, di trasformare l’arte in un respiro profondo, in un gesto che non urla ma sussurra, che non ostenta ma invoca. Dall’esordio nella Roma inquieta di fine anni Ottanta – quando le gallerie ancora custodivano l’incanto del rito – fino alla maturità recente, Scolamiero ha sempre scelto la via dell’essenzialità, del non-detto, della materia che si fa eco. Una pittura meditativa, dove il tempo non è solo traccia ma sostanza, e la superficie non è mai sfondo, ma spazio del destino. Docente di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Roma, artista appartato e profondo, ha attraversato stagioni, mode, fiere e biennali senza mai piegare la sua cifra lirica a logiche di consumo. Le sue opere sono mappe interiori, orografie dell’anima, paesaggi mentali che sprofondano nella memoria e riaffiorano come sedimenti della coscienza. Per lui, dipingere non è esibire ma scavare, non è decorare ma custodire. Ora, in questa nuova personale dal titolo Come sogni perduti, pensata appositamente per la Casa Museo Hendrik Christian Andersen – e curata con sensibilità da Maria Giuseppina Di Monte e Roberto Gramiccia – Scolamiero trova un luogo che è specchio perfetto della sua poetica: un tempio dell’utopia rimasta in sospeso, un laboratorio mai concluso, uno spazio abitato da visioni interrotte. La casa di Andersen, scultore visionario che sognava una città ideale in cui arte, filosofia e spiritualità convivessero armonicamente, diventa la scena dove la pittura di Scolamiero si muove come un’ombra gentile, un respiro trattenuto, una domanda muta lanciata nel vuoto del tempo. Le sei grandi tele che compongono il cuore della mostra non sono quadri nel senso tradizionale, ma finestre su una realtà traslata, in cui ogni segno ha il peso di un ricordo, ogni colore il suono di una voce sommersa.
I bruni e i verdi, i rossi che affiorano come ferite gentili, raccontano di una pittura che nasce dalla terra, dalla materia, dal corpo stesso del mondo. La gestualità è controllata, ma mai fredda: è come se l’artista misurasse il battito del tempo con il pennello, dando forma a una scrittura del silenzio. Ma è nell’allestimento, concepito come un viaggio emotivo e quasi liturgico, che l’opera si fa teatro. All’ingresso, due tele verticali si ergono come colonne leggere, dorate, fragili. Sembrano accogliere il visitatore in un tempio orientale, eppure custodiscono già l’ambiguità dell’incanto: quell’oro, segnato da vibrazioni verdi e rosse, non è trionfale, ma sospeso, in bilico. Più avanti, quattro grandi tele poggiate su blocchi di travertino serrano lo spazio in un circuito denso e materico. Qui, lo sguardo non vola: si piega, si curva, si addentra nella materia, come in una cripta. È una mostra che non si consuma in un colpo d’occhio. Chiede rispetto, tempo, presenza. Ogni tela è un paesaggio mentale da attraversare in silenzio, ogni installazione una domanda aperta sul senso stesso dell’arte.
Non ci sono risposte, né soluzioni: c’è solo il gesto pittorico che si fa traccia, e il sogno che, pur se perduto, continua a brillare tra le fenditure del reale. Il riferimento a Büchner e alla sua Lenz – figura emblematica dell’artista in bilico tra ispirazione e follia – è dichiarato, ma non è semplice citazione. È una chiave interpretativa. Come Lenz, Scolamiero si muove in una natura che non è paesaggio ma stato d’animo, non è scenario ma struttura emotiva. La sua pittura è il tentativo, commovente e necessario, di dar forma a quel viaggio interiore che ogni artista compie nella notte dell’invisibile. In fondo, questa mostra è una preghiera laica. Un dialogo silenzioso tra due uomini – Andersen e Scolamiero – separati da un secolo ma uniti da un’urgenza comune: quella di credere, nonostante tutto, nel potere dell’arte di dare senso all’informe. Dove l’uno sognava monumenti e città ideali, l’altro offre immagini spezzate, inquiete, ma vere. Dove l’uno costruiva cattedrali, l’altro scava pozzi. E allora, Come sogni perduti non è un titolo malinconico, ma un atto di resistenza poetica. Non si piange ciò che è stato: si celebra ciò che ancora vibra. In quelle tele, in quei frammenti, in quelle installazioni che trasformano la casa di Andersen in un luogo della memoria e della speranza, Scolamiero ci ricorda che l’arte – quando è sincera – non è mai perduta. È solo nascosta, in attesa.
Roma, Casa Museo Andersen: “Vincenzo Scolamiero: Come sogni perduti”
