Roma, Palazzo delle Esposizioni: “Roma Codex”

Roma, Palazzo delle Esposizioni
ROMA CODEX
da un’idea di Studio F.P.
a cura di Clara Tosi Pamphili

Roma, 28 maggio 2025
Roma Codex, la grande mostra di Albert Watson ospitata dal 29 maggio al Palazzo delle Esposizioni, ha il merito raro di affrontare Roma senza mitizzarla. Lontana da ogni concessione al folklore o alla cartolina, l’operazione è un esercizio di visione lucida e rigorosa. Il fotografo scozzese, trapiantato a New York, non è nuovo a questo tipo di disciplina: per oltre cinque decenni ha attraversato l’immaginario collettivo passando dalla moda all’arte, con una capacità tecnica che non si esaurisce mai in se stessa. Watson arriva a Roma senza schema precostituito, ma con uno sguardo allenato all’essenziale. La città gli si rivela senza proclami, in una continua dialettica fra monumentalità e dettaglio umano. Il progetto, nato da un’idea di Studio F.P. e curato da Clara Tosi Pamphili, si sviluppa in oltre 200 fotografie, in bianco e nero e a colori, alcune di grande formato. Nulla è casuale, ma nulla è programmatico: è il metodo di Watson a guidare l’immagine, non l’ideologia della città. La scelta di non seguire una disposizione tematica, ma di disporre le opere secondo una logica interna, quasi musicale, restituisce alla mostra una fruizione non retorica. Roma, nella lente di Watson, è un sistema complesso e stratificato. Non vi è traccia del Roma-mito, ma semmai di un’attenzione analitica per ciò che la città produce nel suo presente: volti, architetture, frammenti di vita. Si incontrano così le immagini del Colosseo o dell’Ara Pacis, accanto a scatti nei club notturni, nei teatri di posa di Cinecittà, nei mercati, nei caffè e negli studi d’artista. Il fotografo documenta ma non racconta: costruisce un atlante visivo che non pretende di spiegare, ma di mostrare. È un’operazione che ricorda, per certi aspetti, la fotografia scientifica, ma con un’evidente capacità intuitiva e una conoscenza profonda della composizione. Nel corpus delle opere, convivono ritratti di artisti e intellettuali (Paolo Sorrentino, Roberto Bolle, Valeria Golino, Luca Bigazzi), accanto a volti anonimi, trattati con identico rispetto formale. Watson non crea gerarchie, ma stratificazioni. Ogni immagine è un tassello della città contemporanea, colta nella sua tensione tra memoria e mutamento. La Roma di Watson è una città dove il tempo non è univoco. Non è il luogo della Storia con la maiuscola, ma un corpo urbano che vive nel dettaglio. I paesaggi urbani diventano, così, quasi sezioni archeologiche della contemporaneità: il Foro Romano si affianca a Porta Portese, il Gianicolo alla Via Appia Antica, in un processo di accumulo che non è decorazione, ma struttura. Dal punto di vista tecnico, Watson mostra ancora una volta una padronanza assoluta del mezzo. La luce, trattata con cura quasi scultorea, delinea ogni soggetto senza eccedere in effetti. Il colore, quando presente, è misurato. Il bianco e nero domina con sobrietà. Non c’è compiacimento stilistico, ma aderenza allo sguardo. La mostra si articola in tre grandi sale, ma è concepita come un flusso continuo. Non vi è soluzione di continuità tra i soggetti, che siano monumenti, persone, oggetti o interni. Questo approccio rafforza la lettura di Roma come organismo e non come museo. Watson dimostra che si può fotografare Roma senza mitizzarla, ma anche senza negarne il peso simbolico. Al contrario di molti progetti recenti su Roma, qui non si cerca la città “alternativa” o “segreta”. Si guarda alla città reale, nella sua complessità. Si evita il pittoresco così come la denuncia. Non c’è ideologia nella fotografia di Watson, ma metodo, disciplina, occhio esercitato. L’allestimento, sobrio, non interferisce con le immagini. La mostra si affida interamente al potere del contenuto visivo. Si entra come in una camera ottica, si esce con la sensazione che Roma non sia stata raccontata, ma analizzata. Non è poco. In tempi in cui l’immagine tende a essere strumentalizzata o ingigantita, Roma Codex è un esempio di come si possa ancora praticare la fotografia come linguaggio critico. Watson osserva, isola, ordina. Non giudica, non grida. Mostra. Ed è in questo atto di mostrare, asciutto e onesto, che sta il valore di un progetto che non pretende di definire Roma, ma ne accetta l’ambiguità. Una mostra da vedere con lentezza, magari più volte, per apprezzare quella che, più che una sequenza di scatti, è una lezione di sguardo
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