Roma, Palazzo delle Esposizioni
MARIO GIACOMELLI. IL FOTOGRAFO E L’ARTISTA
a cura di
Bartolomeo Pietromarchi
Katiuscia Biondi Giacomelli
Roma, 19 maggio 2025
La fotografia non è mai stata uno specchio passivo del mondo. Quando funziona, la fotografia pensa. Se ci troviamo oggi davanti alle immagini di Mario Giacomelli, è perché queste immagini non soltanto hanno guardato la realtà, ma l’hanno interrogata, piegata, ri-scritta. In questa mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma – tra le più vaste mai dedicate al maestro marchigiano – non ci troviamo di fronte a una semplice retrospettiva, ma a una verifica dell’assunto che ho spesso sostenuto: il fotografo è un artista non per la qualità tecnica del suo mezzo, ma per la qualità spirituale della sua visione. Nel caso di Giacomelli, quella visione è intrinsecamente duale: lirica e cruda, poetica e brutale. Egli ha visto nel nero e nel bianco non una grammatica, ma un destino. Lo capiamo sin dall’apertura del percorso, dove l’installazione immersiva restituisce la voce, il ritmo e la pelle stessa del suo sguardo. L’autore, che non ha mai lasciato davvero Senigallia – e che ha saputo fare del proprio vicolo il centro del mondo – viene qui proposto in dialogo con Afro, Burri, Kounellis, Cucchi, Ballen. Eppure, con una verità che può sorprendere solo chi non ha mai davvero osservato le sue stampe, Giacomelli non scompare mai nel confronto: regge il peso del paragone, lo trasforma, lo eccede. Ci sono tre assi portanti lungo i quali si struttura questa mostra: la materia, il linguaggio, la presenza umana. Nel primo segmento, l’accostamento con Afro e Burri si rivela subito efficace. Le superfici fotografiche di Giacomelli – rugose, bruciate, lavorate in camera oscura come se fossero tele da incidere – sembrano sorgere da una stessa matrice tellurica. Quella materia (che Burri cauterizza, che Afro dissolve) viene da Giacomelli scritta con luce e acidi, in una pratica fotografica che è al tempo stesso pittorica e alchemica.
Le serie paesaggistiche, da Motivo suggerito dal taglio dell’albero a Territorio del linguaggio, sono esposte non per documentare un territorio ma per evocare una memoria sedimentata nella terra, nei solchi, nella neve come scrittura. Il secondo segmento – dedicato al linguaggio – si articola nel dialogo con Cucchi e con Kounellis. Nel primo caso, si riconosce un comune sentire simbolico: il paesaggio non è un luogo, è una proiezione psichica. Le fotografie esposte vibrano di un’energia visionaria che si distanzia dal realismo documentario: sono visioni. Nel secondo caso, con Kounellis, emerge invece il Giacomelli più etico e radicale. Mattatoio, Lourdes, E io ti vidi fanciulla – titoli che sembrano già versi – sono fotografie dove la materia ritorna, ma come traccia della carne, come testimonianza del dolore, come eco della morte. Con Kounellis, Giacomelli condivide un’antropologia povera, scavata, residuale. È qui che il fotografo mostra la sua più alta tensione tragica. Il terzo asse – quello della presenza umana – trova il suo vertice nella celeberrima serie Io non ho mani che mi accarezzino il volto, esposta per la prima volta nella sua interezza e accompagnata da provini e materiali di lavoro. Le fotografie dei seminaristi non sono immagini di ragazzi. Sono, piuttosto, corpi in movimento spirituale.
Come ho scritto a proposito di altri maestri del mezzo – Weston, Evans, Arbus – la grande fotografia è quella che, nel fissare un istante, lo trasforma in eternità. Questo Giacomelli lo fa con una semplicità che sfiora il miracolo. Le sue immagini non descrivono, rivelano. In questa stanza circolare, installativa, quasi liturgica, la serie si trasforma in un canto visivo. Non va dimenticato che Giacomelli è un artista autodidatta, che ha trovato nella fotografia – e solo in essa – la propria lingua. In questo senso, il dialogo finale con Roger Ballen, che lo ha apertamente riconosciuto come maestro, chiude perfettamente il cerchio: è un passaggio di testimone tra due artisti che hanno fatto del bianco e nero uno strumento di psicoanalisi visiva. Le opere conclusive – Questo ricordo lo vorrei raccontare, La domenica prima, Per poesie (ferri e lenzuola) – sono pagine di diario, frammenti di sogno, lampi di coscienza. Eppure mai estetizzanti. Giacomelli non fotografa per piacere. Fotografa perché deve.
L’ultima sala – la ricostruzione del suo studio – è un atto di rispetto e di amore. Non c’è spettacolarizzazione. Solo i suoi strumenti: l’ingranditore, la Kobell, le pareti tappezzate di fogli. È un tempio laico, un laboratorio della visione. Ed è giusto che il visitatore vi entri dopo aver attraversato l’universo del suo autore. Perché è solo qui, nello spazio più intimo, che si può davvero comprendere quanto il lavoro di Giacomelli sia stato totale. Ossessivo. Necessario. Con questa mostra – la più completa mai vista a Roma – Giacomelli viene restituito non come un fotografo italiano. Ma come uno dei grandi artisti visivi del secolo breve, capace di rendere la fotografia uno strumento per dire l’indicibile. E come ogni grande artista, non ha lasciato immagini. Ha lasciato domande.
Roma, Palazzo delle Esposizioni: “Mario Giacomelli. Il Fotografo e l’Artista”
