Roma, Palazzo delle Esposizioni: “World Press Photo 2025”

Roma, Palazzo delle Esposizioni
WORLD PRESS PHOTO 2025
Roma, 05 maggio 2025

Ogni anno, mentre il frastuono dell’attualità rincorre se stesso e la cronaca affonda nel rumore bianco della ripetizione, esiste ancora un luogo in cui l’immagine resiste. Non quella del marketing, del selfie, del filtro digitale. Ma l’immagine nuda, cruda, necessaria. È la fotografia del dolore, della sopravvivenza, della tenacia. Quella che non chiede di essere scattata, ma che si impone all’obbiettivo come testimonianza. A Roma, a Palazzo delle Esposizioni, torna la mostra World Press Photo, e con essa la consapevolezza – che talvolta urta e turba – che guardare non è un atto neutro, ma una responsabilità. Chi varca la soglia del palazzo, non entra in una galleria come le altre. Si entra piuttosto in un universo collassato. Ogni immagine è una faglia, un’apertura su un mondo che, seppure distante, ci appartiene. Non si tratta solo di guerra, di crisi, di clima. Si tratta, per dirla chiara, di umanità. Di quella che resiste tra le rovine e quella che cerca un varco tra le frontiere. È un reportage dell’anima, più che della cronaca. E ha il potere di scorticare l’indifferenza con l’arma più semplice e antica: uno sguardo. Quest’anno il premio principale va a uno scatto che non si dimentica. Non per la sua violenza, ma per il suo silenzio. Il volto di Mahmoud Ajjour, nove anni, seduto in un letto d’ospedale a Gaza, ci guarda. Due monconi al posto delle braccia, perse in un’esplosione mentre tentava la fuga con la famiglia. La fotografia è di Samar Abu Elouf. Palestinese, donna, fotogiornalista per il New York Times. Non un nome qualsiasi, non uno sguardo qualsiasi. È la rappresentazione plastica dell’insensatezza, sì, ma anche della volontà di sopravvivere. In quello sguardo c’è una domanda che nessun trattato di geopolitica potrà mai contenere: perché? Accanto a questa icona, si stagliano altre due finaliste. Due spettri di un presente altrettanto tragico e ugualmente reale. Night Crossing di John Moore ritrae un gruppo di migranti cinesi accovacciati attorno a un fuoco dopo aver attraversato il confine tra Messico e Stati Uniti. Lo scatto cattura l’umanità congelata, l’attesa tra una notte e un’altra, tra un’identità lasciata e una ancora non conquistata. Poi, Droughts in the Amazon di Musuk Nolte ci porta in Brasile, dove un ragazzo cammina sul letto prosciugato di un fiume per portare del cibo alla madre. Il clima non è più una previsione, ma una condanna. E la fotografia, qui, si fa prova: atto giudiziario contro la nostra stessa specie. Nel percorso della mostra, tra i 42 progetti selezionati da oltre 59.000 immagini inviate da quasi 4.000 fotografi di 141 Paesi, la voce dell’Italia c’è. E non è marginale. Cinzia Canneri, unica italiana premiata, porta in mostra un lungo progetto di documentazione delle donne eritree e etiopi in fuga da regimi e conflitti. Un lavoro che non cerca la retorica della denuncia, ma il dettaglio della vita. I capelli raccolti in fretta, i corpi contratti per il freddo e la paura. Dettagli che valgono più di mille editoriali. La selezione, articolata in sei aree geografiche, è passata per mani esperte, e il giudizio finale è stato affidato a una giuria globale indipendente. Nulla di improvvisato, nulla di ammiccante. Le fotografie in mostra non lusingano, non seducono. Esigono. Esigono tempo, silenzio, una postura interiore. E chi ha ancora la presunzione di ritenere la fotografia un’arte minore, farebbe bene a fermarsi qui più a lungo del previsto. Perché questa non è una mostra che si attraversa con leggerezza. È un campo minato di emozioni, un rosario laico di tragedie, un archivio del presente che nessuno vorrebbe leggere, ma che tutti devono conoscere. E proprio per questo, è una delle mostre più urgenti dell’anno. Non si tratta di estetica, ma di etica. Non si tratta di gusti, ma di coscienza. Nel disordine del mondo, mentre le notizie si consumano nella velocità dello scroll, questa esposizione ci ricorda che ogni scatto è una scelta. E ogni scelta comporta una responsabilità. I fotografi premiati dalla World Press Photo Foundation non cercano l’applauso, ma la verità. Quella che si affaccia in una finestra bombardata, in un volto scavato dal sole, in un abbraccio rubato al pericolo. E allora, uscendo da Palazzo delle Esposizioni, viene da pensare che forse non tutto è perduto. Che finché esisteranno occhi capaci di vedere, e mani capaci di fermare l’istante in uno scatto che ci costringe a pensare, il mondo avrà ancora una speranza. Piccola, fragile, ma vera. Come quella che si legge nello sguardo mutilato di Mahmoud. Un bambino senza braccia che ci tende, paradossalmente, le mani. Perché siamo noi, adesso, a dover fare qualcosa. Almeno guardare. Guardare davvero.